05
May
L’ascesa degli Usa a superpotenza è anche frutto di strategie civili-militari volte a reperire risorse, aprire mercati e imporre standard. Gli esordi post-bellici. L’offensiva clintoniana degli anni Novanta. In Ucraina si combatte anche per il gas. E contro la Bri cinese.
di Giuseppe Gagliano
1.Gli Stati Uniti usciti vittoriosi dalla guerra fredda sono stati i primi a cogliere appieno la nuova realtà internazionale e strategica. L’attuale approccio americano si esplica in una rinnovata attenzione al campo economico, fondamentale per la superpotenza ma anche per il resto del mondo: determinata a conquistare un ruolo egemone anche in quest’ambito, l’America usa ogni mezzo per combattere la guerra economica. Gli effetti sono visibili soprattutto nella forte crescita del commercio estero americano e dell’occupazione creata dal settore. In un mondo in cui l’influenza statunitense si misura anche con il numero di mercati conquistati, la diplomazia del commercio è rivelatrice della nuova percezione americana delle sfide mondiali. Tale approccio si basa anzitutto su un’intensa mobilitazione dell’amministrazione. Punta di questo enorme iceberg è l’iniziativa di Bill Clinton, che fin dall’insediamento alla Casa Bianca usò ogni mezzo disponibile per promuovere gli interessi economici nazionali. Ne sono esempi le pressioni sul re saudita per assegnare all’azienda di telefonia AT&T importanti progetti e la firma di ingenti contratti con il governo federale.
Altra importante attività a sostegno delle imprese americane è l’individuazione di mercati emergenti verso cui convogliare gli sforzi di penetrazione. Questi mercati rilevano soprattutto per popolazione, vivacità economica e posizione geografica. Una prima lista comprendeva, nel 1994, Messico, Brasile e Argentina in America Latina; Cina (estesa a Hong Kong e a Taiwan), Indonesia, Corea del Sud e India in Asia; Polonia e Turchia in Europa; Sudafrica. Successivamente si sono aggiunte Malaysia, Filippine, Thailandia e Singapore. Questi paesi sono al contempo economie emergenti e cosiddetti pivot, nazioni la cui influenza regionale esige un’attenzione particolare. Oltre a individuare i settori economici dove le imprese statunitensi sono più competitive (tecnologie ecologiche, dell’informazione, sanitarie, dei trasporti, energetiche e servizi finanziari), la nuova diplomazia del commercio stabilisce tre fasi di conquista dei mercati.
Vi è la preparazione del terreno, con la liberalizzazione degli scambi commerciali e la definizione di regole favorevoli agli interessi americani. Poi interviene la raccolta e diffusione di informazioni strategiche fra attori chiave, con la creazione di un’intelligence economica che metta a disposizione delle imprese le capacità d’analisi governative. In questa fase interviene anche la Cia, specie per destabilizzare imprese o Stati concorrenti. Infine la fase attiva con la mobilitazione di strutture apposite, come l’Advocacy Network che riunisce le competenze di vari attori politico-amministrativi (dipartimenti di Stato, Difesa, Tesoro, Agricoltura, Commercio, Agenzia per lo sviluppo internazionale), per monitorare l’andamento dei principali progetti in fieri. Questi enti sono incaricati di attuare una strategia nazionale d’esportazione, parte della quale consiste nel concentrarsi sui paesi emergenti.
Al vertice della potenza gli Stati Uniti lanciano dunque la battaglia del libero scambio, che prevede innanzitutto l’apertura delle frontiere con la costituzione di vasti blocchi regionali. Questa strategia, rafforzata dall’avvento dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 1995, mira a imporre norme, standard e abitudini di consumo statunitensi al resto del mondo. Come arma economico-commerciale, quest’apertura sembra però funzionare solo in operazioni nelle quali gli Stati Uniti sono l’attore principale. I rapporti con l’America latina ne sono esempio: l’estensione del Nafta al Cile è vagliata senza tener conto dell’opinione di Canada e Messico, gli altri due membri; l’aperta ostilità verso il Mercosur, visto come ostacolo al progetto d’integrazione economica dall’Alaska alla Terra del Fuoco, è il messaggio principale di Clinton nel suo viaggio in Cile, Argentina e Brasile del 1997.
Ne sorge un braccio di ferro tra Washington e Brasilia culminato nell’elevazione dell’Argentina al rango di alleato privilegiato degli Stati Uniti. Washington si è infine assicurata il sostegno di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e organi regionali come la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che con denaro europeo finanzia l’adeguamento alle leggi americane delle politiche economiche dei paesi dell’Europa centro-orientale.
2. Anche in ambito politico-strategico l’interesse economico americano è ben visibile. Le Nazioni Unite sono in crisi finanziaria cronica in ragione degli insoluti di vari Stati che ammontano a circa 2,4 miliardi di dollari, 1,5 dei quali dovuti dai soli Stati Uniti. Rifiutandosi di regolare gli arretrati e negoziando di volta in volta la propria quota parte, Washington mette l’Onu sotto tutela finanziaria rendendola dipendente dalla sua buona volontà. Con la guerra del Golfo i cosiddetti affari civili-militari hanno assunto importanza strategica, dimostrando la capacità statunitense di condurre operazioni di grande respiro. Dopo la preparazione dell’opinione pubblica americana e mondiale all’intervento militare e l’offensiva sul terreno, ve n’è stata un’altra: la ricostruzione. Questa è stata concepita come azione militare usando gli stessi criteri di preparazione, rigore e precisione, con il risultato che le imprese d’oltreoceano si sono accaparrate l’80% degli appalti.
Già con l’intervento nell’ex Jugoslavia si era assistito allo spiegamento di battaglioni di cooperanti ed esperti civili incaricati di valutare i bisogni della ricostruzione nella Bosnia devastata. La Nato è un altro campo in cui Washington gioca la carta economico-commerciale, che dopo la fine della guerra fredda si è concretizzata nelle proposte di allargamento a est. L’ammissione nell’Alleanza ha infatti un prezzo per gli aspiranti, che devono procurarsi armamenti e attrezzature occidentali. Ufficialmente non esiste legame tra l’allargamento deciso da Clinton e l’apertura di mercati per un’industria militare americana già dominante, ma nel caso del rinnovo degli aerei da combattimento le preferenze delle autorità locali si indirizzano necessariamente verso apparecchi americani, piuttosto che svedesi o francesi. Un mercato da circa dieci miliardi di dollari. Altre iniziative militari rispondono ameno in parte a imperativi economici.
Numerosi ufficiali dell’ex blocco sovietico si addestrano negli Stati Uniti, in Europa o altrove. Ciò costituisce un formidabile vettore d’influenza americana negli Stati maggiori degli eserciti dell’Europa centro-orientale e dell’area ex sovietica. Anche l’invio in Senegal, Uganda, Malawi, Etiopia e Mali di decine di istruttori per la formazione dell’African Crisis Response Initiative risponde a questa logica. La diplomazia del commercio non è tuttavia incontestata, anche sul piano interno. Si stima che negli ultimi quattro anni presidenza e Congresso abbiano imposto 60 pacchetti di sanzioni a 35 paesi. Due sono le leggi, entrambe del 1996, che per la loro portata extraterritoriale suscitano pesanti critiche: la Helms-Burton, che permette a imprese o cittadini statunitensi vittime di espropri da parte del regime cubano di impugnarli davanti a un tribunale statunitense, e la D’Amato-Kennedy, che impedisce qualsiasi investimento in Iran e in Libia nel settore degli idrocarburi oltre una determinata soglia. 3. Che la diplomazia del commercio sia una strategia pianificata o il frutto di una radicata cultura di mercato, è certo che sfrutti le altrui debolezze. Anche mediante il diritto internazionale, reso strumento di guerra economica e messo così in dubbio nella sua legittimità.
Tale diritto è oggi svuotato della sua sostanza: c’è infatti un flagrante abuso di legislazione extraterritoriale con regole che avvantaggiano uno o pochi Stati a danno di altri. Con il Foreign Corrupt Practices Act (Fcpa), il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), le citate leggi Helms-Burton e D’Amato-Kennedy, il Patriot Act, la legge Sarbanes-Oxley (Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act), il Justice Against Sponsors of Terrorism Act e il Cloud Act gli Stati Uniti hanno imposto alla comunità internazionale i loro obiettivi strategici. In dieci anni (2008-18) lo Stato americano, attraverso l’Fcpa, ha inflitto multe per quasi 6,9 miliardi di dollari, di cui appena 1,7 miliardi a società americane e il resto a entità prevalentemente europee. Tra il 2004 e il 2015 le sanzioni per la violazione degli embarghi statunitensi hanno fruttato 16,9 miliardi di dollari, principalmente a danno di aziende europee.
Le vittime di questo arsenale legale tentano di sviluppare contromisure, sicché potenze emergenti come Cina, India, Brasile, Turchia o Indonesia provano ad aggirare l’ordine americanocentrico anche in campo normativo. Ma all’uso del diritto internazionale come strumento egemonico si accompagna un utilizzo altrettanto sapiente del soft power. Presentandosi come campioni della concorrenza gli Stati Uniti hanno realizzato la migliore operazione d’influenza del Novecento, mascherando l’aggressività economica con la denuncia del colonialismo europeo. Ciò ha permesso loro di dissimulare le iniziative di conquista, come la colonizzazione delle Hawaii, e di banalizzare i molteplici interventi militari tra XIX e XX secolo.
Il soft power economico americano è costruito attorno a questo malinteso. Tra le principali critiche statunitensi agli imperi coloniali europei vi erano gli scambi privilegiati tra colonie e madrepatrie. Il Commonwealth fu preso di mira durante i negoziati per il Gatt (1947) e Washington rifiutò di firmare la Carta dell’Avana (1948) che manteneva il principio delle «preferenze imperiali». Eppure la morsa degli Stati Uniti sul petrolio mediorientale smentisce la retorica. Dipartimento di Stato, agenzie d’intelligence e compagnie petrolifere hanno collaborato per imporsi ai paesi interessati e ai potenziali concorrenti, con frequente ricorso alla forza: partecipazione indiretta e diretta a conflitti armati, colpi di Stato (come in Iran nel 1953), destabilizzazione del nazionalismo arabo. 4. Il soft power economico degli Stati Uniti prende forma dopo la seconda guerra mondiale: armata di una decisiva superiorità militare, l’America cerca di dominare mercati vitali.
Gli artefici del piano Marshall incoraggiano l’acquisto di soia americana per l’alimentazione animale, instaurando una dipendenza che si diffonderà successivamente ad altri settori chiave come l’industria informatica. Per dissimulare queste logiche le élite americane ricorrono a due tipi d’azione. Da un lato, improntano la conoscenza: le principali università americane hanno gradualmente imposto la loro visione del commercio badando a non parlare di contese geoeconomiche. Un’omissione gravida di conseguenze, in quanto ha privato le élite europee di una visione critica dell’aggressività delle imprese americane nei mercati esteri. Discipline accademiche come le scienze gestionali o l’economia hanno bandito qualsiasi analisi della guerra economica che gli Stati Uniti praticavano con discrezione. Dall’altro lato, catturano la conoscenza. Per evitare di essere sopraffatti dai concorrenti, gli Stati Uniti sviluppano nel tempo un accurato sistema di monitoraggio per contattare quanto prima ricercatori e ingegneri stranieri offrendo loro soluzioni di espatrio o finanziamenti. Se falliscono, il ricorso allo spionaggio non è escluso.
In questo contesto s’inserisce l’uso sistemico di disinformazione e manipolazione. Il decollo delle economie europee e asiatiche impone di adattare la guerra economica. Negli anni Novanta, crollata l’Urss, gli Stati Uniti aprono diversi fronti. Con il pretesto di contrastare la concorrenza sleale e la corruzione l’amministrazione Clinton bersaglia dapprima gli europei. Nel 1998 Alcatel subisce una serie di attacchi con indiscrezioni circa la mancanza di trasparenza finanziaria, crollando alla Borsa di Parigi. In questa fase gli imprenditori americani concorrono finanziariamente alla creazione di ong come Transparency International, che prendono a stigmatizzare vari paesi ma si guardano dall’indagare le grandi aziende di revisione (quasi tutte statunitensi) coinvolte nella sottoscrizione dei grandi contratti internazionali. La principale trasformazione del soft power americano negli ultimi vent’anni riguarda però la strumentalizzazione dell’informazione. Tutti ricordano gli scandali del sistema Echelon o le dichiarazioni di Edward Snowden sulla dimensione dello spionaggio americano via Internet e social media, ma le tecniche di guerra dell’informazione applicate in economia sono ancora poco familiari al grande pubblico. 5. In virtù di quanto sopra possiamo evidenziare come l’attuale conflitto con la Russia sia anche una guerra economica nei confronti del gas russo.
Il progetto Nord Stream 2 vale oltre 50 miliardi di m3 di gas all’anno; anche se gli obiettivi di neutralità carbonica hanno modificato la quota di gnl (gas naturale liquefatto) nel mix energetico tedesco, il calo di carbone e nucleare va compensato. Il fatto che la Germania sia l’acquirente numero uno del gas russo deriva infatti da una doppia decisione: la fine del nucleare e il progressivo abbandono delle centrali termiche che utilizzano il carbone. Il 74% delle importazioni europee di gas giunge via gasdotti, di cui il 41% dalla Russia, il 35% dalla Norvegia e l’11% dall’Algeria. Un altro 5% arriva dal Qatar via nave, il 3% dalla Nigeria e una parte dagli Stati Uniti. Washington si è sempre opposta a Nord Stream 2 in nome dell’indipendenza energetica europea. Donald Trump si espresse contro una politica dell’Europa, in particolare della Germania, che «rafforza le capacità finanziarie russe mentre gli Stati Uniti spendono miliardi di dollari per la Nato».
L’America vuole diventare uno dei principali esportatori di gas in Europa, grazie in particolare al gas di scisto. Pertanto attua misure graduali di soft e smart power: influenza su Polonia e Danimarca, adesione al Baltic-Adriatic-Black Sea (Babs) Initiative, sanzioni extraterritoriali, uso della Nato. A differenza della Russia, secondo cui Nord Stream 2 è un progetto commerciale, gli Stati Uniti affermano che si tratta di un progetto geopolitico che giustifica le sanzioni nel quadro del Caatsa (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act) del 2017 e del Peesa (Protecting Europe’s Energy Security Act) del 2019. Ucraina e Polonia sostengono attivamente la posizione statunitense, ma per ragioni diverse. L’Ucraina, attraverso cui passa il gas russo (oleodotti Sojuz e Brotherhood), è contraria a Nord Stream 2 perché la sua attivazione le sottrarrebbe diritti di transito per 7 miliardi di euro l’anno.
Nel Gruppo di Visegrád la Slovacchia beneficia del diritto di precedenza grazie al gasdotto Transgaz (estensione delle infrastrutture energetiche Družba e Sojuz), l’Ungheria dipende dal gas russo ed è collegata a Mosca anche in virtù dei due reattori nucleari VVR-1200 prodotti da Rosatom. Malgrado queste differenze Ungheria, Slovacchia e Slovenia hanno sottoscritto il progetto Babs sostenuto dagli Stati Uniti, che mirano a creare un corridoio per il loro gnl come alternativa al gas russo. Gli altri firmatari del Babs sono Bulgaria, Estonia, Croazia, Lettonia, Lituania, Austria, Polonia, Romania e Repubblica Ceca. C’è da scommettere che alla luce della guerra in Ucraina la Commissione europea vorrà far valere su Nord Stream 2 le norme del terzo pacchetto energia (2009), dove si contempla un diritto d’accesso ai gasdotti da parte di fornitori terzi. Ne consegue che lo stesso operatore non possa essere al contempo produttore e distributore, condizioni sinora difficili da soddisfare. Tali requisiti erano viceversa rispettati nel progetto South Stream abbandonato da Mosca con il pretesto delle sanzioni europee per l’annessione della Crimea.
Appena due mesi dopo la Russia costruiva TurkStream con Ankara, che non essendo parte dell’Ue non soggiace alle condizioni del pacchetto energetico. Il Congresso resta responsabile delle sanzioni per tutta la presidenza Trump, che è sempre stata ambivalente nei confronti della Russia e di Vladimir Putin. Già nel gennaio 2018 il segretario di Stato Rex Tillerson si era opposto a Nord Stream 2, insieme alla Polonia. Il 12 dicembre 2018 viene votata una risoluzione alla Camera dei rappresentanti che autorizza sanzioni contro i settori petrolifero e del gas russo. Il 21 dicembre 2019 Trump firma la legge del Congresso che sanziona il raddoppio del gasdotto Baltico. La Polonia ha svolto un ruolo importante nella definizione della postura americana in merito.
Il premier Mateusz Morawiecki è sostenuto dal presidente ucraino Petro Porošenko, da Trump, dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e dall’allora ministro degli Esteri britannico Boris Jonhson quando dichiara che Nord Stream 2 avrebbe accentuato la dipendenza dell’Europa dal gas russo. Morawiecki giungerà a criticare Washington per le tardive sanzioni al progetto. Dal 2016 Berlino ritiene che il coinvolgimento americano miri a vendere il gnl made in Usa sul mercato europeo. Malgrado la guerra la Germania resta determinata a mantenere le sue posizioni, tanto da spingere alcuni a ritenere che il dialogo tra Putin e il cancelliere Olaf Scholz si ricostruirà su basi di Realpolitik.
6. Nel gennaio 2021 la Germania tenta di aggirare le sanzioni statunitensi. Il Meclemburgo-Pomerania, approdo di Nord Stream 2, istituisce una fondazione pubblica che funge da società di copertura contro le sanzioni del dipartimento di Stato e dell’Ue. Il Peesa esclude infatti le persone giuridiche e gli enti pubblici. La fondazione, responsabile dell’acquisto di forniture e dell’invio di ordini alle società di servizi, è un ente pubblico senza fini di lucro sostenuto dal Fondo per la protezione del clima nel Meclemburgo-Pomerania occidentale, finanziato con 20 milioni di euro dal consorzio Nord Stream 2/Gazprom. Anche se l’amministrazione Biden è determinata a rispettare le sanzioni approvate nel 2019, vi è una contraddizione tra i suoi obiettivi e quelli del Congresso. Mentre da vicepresidente era ferocemente contrario al gasdotto, ora l’obiettivo dell’inquilino della Casa Bianca è ricucire i legami con Europa e Germania.
Ciò va contro la linea dura, maggioritaria e bipartisan del Congresso. Le sanzioni colpiscono 120 entità legali e fisiche tra cui compagnie assicurative (Axa), società di certificazione (Dnv Gl), fornitori di navi (la svizzero-olandese Pioneer Sprit). Questioni economiche e militari s’intrecciano nella vicenda di Nord Stream 2. Emerge la contraddizione della Germania, paese atlantista diviso tra fedeltà all’America e interessi economici. Prima della guerra in Ucraina, Mosca stava sviluppando i giacimenti di gas artico Jamal e Gydan, con le relative tecnologie di liquefazione. I principali attori sono la società privata russa Novatek, le europee Total, Technip e Saipem, le cinesi Cnpc, Silk Road Fund, Cnooc e soggetti giapponesi. Mosca punta a diventare un attore importante nel mercato del gnl, sviluppando un adeguato know-how. Il riscaldamento globale consente di sfruttare sempre più la Rotta settentrionale per la commercializzazione di tali risorse, malgrado condizioni estreme. Questa rotta accorcia di ben 15 giorni il collegamento Atlantico-Pacifico senza passare per Suez e per batterla la Russia può contare sui suoi 39 rompighiaccio. Da qui la strategia statunitense volta a limitare la navigazione tramite organismi internazionali in nome della protezione ambientale.
Nel novembre 2020 l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) ha interdetto il passaggio nell’Artico alle navi che trasportano olio combustibile pesante, prendendo così di mira la flotta russa. Gli Stati Uniti sono diventati il terzo esportatore di gnl dopo Australia e Qatar. La Russia è quarta e conta di aumentare le proprie capacità. Gli Usa cercano di ostacolarne la concorrenza ma anche l’ascesa strategica nell’Artico. La questione, comunque, verte ora sulla sovranità europea. Washington ha attraversato il Rubicone: è nel cuore dell’Europa che intende sanzionare le imprese russe, impedendo all’Ue di restare nella sfera d’influenza di Mosca. 7. In quest’ottica gli Stati Uniti si preparavano da tempo a un possibile conflitto tra Ucraina e Russia. I primi rapporti documentati tra Kiev e la Cia risalgono al 2014, quando a dirigere quest’ultima era John Brennan.
Questi investì molte risorse nella realizzazione di una stretta sinergia con l’Sbu, l’intelligence interna ucraina. Lo fece con il sostegno della Casa Bianca e in particolare di Obama, che mediante l’Authorization Act del Congresso (10 dicembre 2014) intese rafforzare la sua sinergia con l’Ucraina. Quattro anni dopo, nel 2018, l’ex direttore della Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) del Pentagono, Anthony Tether, fu nominato nel consiglio di sorveglianza del più importante complesso militare-industriale ucraino, Ukroboronprom, per progettare una Darpa simile a quella americana. Nasce così l’Agenzia governativa per lo sviluppo della ricerca avanzata, grazie anche ai finanziamenti dell’allora presidente Petro Porošenko. Non sorprende che in questo settore sussistano sinergie tra aziende americane e ucraine: l’industria aeronautica ucraina Motor Sich, che ha costruito l’Antonov An-124, ha ricevuto diversi milioni di dollari da società americane tra cui l’Oriole Capital Group, strettamente legato a Boeing. Giungiamo così al 2019, anno di promulgazione del Peesa, che commissiona tra l’altro un rapporto dettagliato all’intelligence nazionale e al Tesoro circa le possibili implicazioni di Nord Stream 2 sulle scelte geopolitiche dell’Unione Europea.
L’opposizione di queste istituzioni al gasdotto finisce così per saldarsi con quella, preesistente, dell’Ufficio risorse energetiche del dipartimento di Stato. Frattanto anche il Regno Unito sviluppa sinergie militari con l’Ucraina e nel 2021, presso il porto di Odessa, Jeremy Quin e Tony Radakin – rispettivamente responsabile appalti della Difesa e capo di Stato maggiore – siglano un accordo di cooperazione nel settore navale. Naturalmente finalizzato a contrastare l’influenza russa. Washington e Londra hanno dunque cooperato con l’Ucraina non tanto e non solo per ragioni economiche, ma soprattutto per contenere la Russia. Mentre Mosca cercava di reinserire l’Ucraina nella sua sfera d’influenza e di allontanarla dall’Anglosfera. La guerra tra Russia e Ucraina riconfigura gli equilibri globali. Belt and Road Initiative (Bri) cinese, Global Gateway dell’Ue, Blue Dot Network (Bdn) statunitense, Build Back Better World (B3W) del G-7, Quality Infrastructure Investment giapponese, Unione economica eurasiatica (Uee) russa, International North-South Transport Corridor russo-iraniano-indiano. Tutte le principali iniziative geoeconomiche aventi variamente a oggetto il continente eurasiatico ne sono toccate.
“https://cdn.gelestatic.it/limesonline/www/2022/04/1_invasione_russa_aprile_2022_edito422.jpg” Carta di Laura Canali – 2022
Le nuove vie della seta cinesi, in particolare, saranno profondamente riconfigurate da questa guerra, in quanto prima del conflitto Pechino aveva nella direttrice Russia-Ucraina-Bielorussia-Polonia la rotta terrestre più affidabile verso il mercato europeo. Anche il 17+1, la sinergia tra la Cina e i 17 paesi dell’Europa centro-orientale già messa alla prova dalla guerra economica sino-statunitense, sarà ulteriormente pregiudicata dalla distruzione delle infrastrutture ucraine.
A questo punto le relazioni Cina-Ue dovranno incentrarsi sulle rotte marittime, mentre la Bri dovrà attribuire maggiore importanza ad altri corridoi come quello passante per Caspio, Iran e Turchia onde aggirare la Russia. Al riguardo l’accordo sul nucleare iraniano, ma soprattutto quello di collaborazione tra Cina e Iran di durata venticinquennale, promettono di rafforzare questo corridoio fino a renderlo centrale. Anche il corridoio economico Cina-Pakistan, che consente il collegamento con l’Oceano Indiano, acquisterà maggior peso. Esso è già collegato a Iran e Turchia da infrastrutture stradali e ferroviarie, il che potrebbe indurre la Cina a integrarlo con quello iraniano per raggiungere l’Europa.
In quest’ottica la Turchia acquista maggiore importanza per la Cina. Altra conseguenza della guerra è la futura centralità della Cina per Mosca nel settore delle transazioni economiche: a causa delle sanzioni Mastercard e Visa hanno lasciato la Russia e la cinese Unionpay diverrà l’unica alternativa possibile. Non è dunque escluso che a lungo termine l’economia russa e quelle dell’Uee vengano inglobate nell’orbita cinese e nella geografia della Bri.