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Apr
Nell’epoca nucleare, può ancora la politica limitare la guerra? È questa la domanda fondamentale che impegna da quarant’anni gli strateghi (non meno che i politici) dell’uno e dell’altro blocco. La guerra nucleare infatti è inevitabilmente illimitata, assoluta, irrazionale.
Due dei presupposti che secondo la polemologia clausewitziana consentivano di frenare l’ascesa all’estremo erano: 1. Che la guerra non “si riassumesse in una sola decisione o in decisioni sia pur multiple ma simultanee”; e 2. che il risultato della guerra non costituisse in sé nulla di “definitivo”. Ora, entrambi questi presupposti sono sovvertiti dalla guerra nucleare. Il conflitto termonucleare infatti tende naturalmente a divenire istantaneo, ad essere, per così dire, senza tempo; e ciò impedisce nei fatti qualsiasi dialogo tra i due belligeranti e qualsiasi ragionevole controllo della violenza. L’enorme potenziale distruttivo del mezzo atomico configura di fatto quest’arma come mezzo “ultimo” (definitivo), e ciò rende impossibile la traduzione dell’esito bellico in esito politico. In questo senso, come è stato acutamente osservato, il conflitto nucleare non è neppure una “catastrofe”, se con questo termine intendiamo il passaggio improvviso da una forma a un’altra; ma è veramente una rottura irreversibile, la fine di ogni forma sociale e politica: “dopo la guerra nucleare, mai più politica”.
Un tempo, inoltre, la battaglia costituiva l’ora della verità, il momento in cui il destino lanciava la sua terribile sentenza, stabilendo chi era il vincitore e chi il vinto: “Superiorità e parità – scrive Glucksmann – costituivano dei concetti al riparo da ogni equivoco; il maneggiarli poteva dar luogo a qualche incertezza ma tutti sapevano dove l’errore di calcolo poteva manifestarsi: sul tavolo anatomico del campo di battaglia”. Ora, invece, l’armamento nucleare ha smantellato “questo dispositivo ottico, pur ben congegnato, vietando la prova finale. Non c’è prova nella pura forza dal momento che la prova di forza spinta al parossismo si rivela per tutti suicida”. Nella guerra nucleare non ci sono vinti e vincitori, ma solo perdenti. Di conseguenza, l’ora della verità non è più la battaglia ma la crisi; e la strategia da arte della battaglia si trasforma inevitabilmente nell’arte di gestire la crisi (crisis management), analoga per certi versi a quella strategia manovriera del secolo XVIII tanto osteggiata da Clausewitz.
E ancora: secondo la polemologia classica, la matrice strategica si lasciava suddividere nei due comportamenti asimmetrici dell’offensiva e della difensiva, quest’ultima superiore alla prima perché aveva dalla sua lo spazio e il tempo. La guerra nucleare invece ha abolito le nozioni di spazio e di tempo. Qualsiasi parte del globo è vulnerabile in ogni momento e lo scontro decisivo si risolve in una manciata di secondi. Inoltre, mentre nella teoria classica c’erano sempre un attaccante e un difensore, ora ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di una “guerra difensiva bilaterale”, in cui ciascuno dei due avversari si contrappone a un nemico più o meno immaginario. “Ciascuna superpotenza è, infatti, convinta di essere ‘attaccata’ dall’altra, sia sotto la specie di ‘duelli’ locali o per interposta persona, sia sotto la specie di una ‘minaccia’ potenziale il cui attento studio determinerà poi le ‘forme’ concrete della difesa reciproca.” L’arma nucleare ha reso deboli entrambe le superpotenze, con il risultato che si è venuto a creare un sistema di guerra, “basato su una coppia di ‘difensori’ contrapposti e reali”, che ha bisogno per la sua esistenza di “un’altra coppia di ‘attaccanti’ immaginari, specularmente uguali e contrari”.
L’equilibrio fra i due avversari si fonda su un duello continuamente differito, giacché la sua conclusione prevede la “certezza della reciproca distruzione” o Mad (da “Mutual Assured Destruction“). Ciò significa che ciascuna delle due superpotenze ha la forza di assorbire un primo colpo nucleare e di sferrare poi un secondo attacco nucleare di rappresaglia, di entità pari o superiore a quello che ha dovuto subire.
In questo quadro, la funzione delle armi strategiche nucleari è propriamente di dissuasione: esse garantiscono la pace atomica, poiché ogni attacco preventivo porterebbe soltanto a una reciproca distruzione.
L’impianto logico concettuale della strategia dissuasiva si basa su un rischio calcolato e sul paradosso di impedire l’impossibile (lo scatenamento della guerra nucleare) proprio mantenendo la sua perenne possibilità. Come ha osservato Norberto Bobbio, questo apparente paradosso si può esprimere così:
Affermare che la guerra, giunta al grado di terribilità della guerra atomica, è diventata impossibile, significa che si ritiene efficace la dissuasione esercitata attraverso la minaccia reciproca di distruzione; ma la dissuasione è efficace solo se la guerra è possibile. Se una delle due parti ritenesse impossibile la guerra, cioè il passaggio dallo stato di dissuasione attraverso la minaccia alla realizzazione della minaccia, la dissuasione avrebbe finito di operare; ma dove la dissuasione finisce, la guerra diventa di nuovo possibile. La situazione di equilibrio del terrore può essere definita come quella situazione in cui la guerra è diventata impossibile proprio per il fatto di essere ancora, nonostante tutto, cioè nonostante la sua terribilità, materialmente e moralmente possibile“.
Ma se questo, come sostengono anche gli strateghi, è il paradosso in cui viviamo, si ripropone allora la domanda fondamentale: che cosa può rendere impossibile la guerra nucleare o, in altre parole, quale logica può impedire l’ascesa all’estremo? A seconda della risposta che danno a questo interrogativo, gli strateghi contemporanei si possono dividere in “neo-clausewitziani” e “anti-clausewitziani” (naturalmente questa classificazione va presa come uno schema di massima, che non esaurisce certo la complessità e la varietà delle diverse posizioni).
Alla prima corrente si ricollega Raymond Aron, per il quale la domanda “chi limiterà le guerre?”, “non implica nell’era nucleare una risposta diversa da quella dell’era napoleonica: l’intesa politica”. Infatti: “lo sterminio dei popoli con le armi nucleari non lascerebbe altro che ruderi contaminati. […] Marxisti-leninisti e occidentali pensano il mondo secondo categorie differenti ma non al punto di aver perduto ogni linguaggio comune. Gli uni e gli altri ammettono che le armi nucleari tendono alla dissuasione e non alla decisione. Nulla impedisce agli occidentali di comprendere che il loro fine politico non esige né l’impiego delle armi nucleari né la distruzione fisica del nemico”.
Neo-clausewitziani possono essere considerati anche quegli strateghi occidentali che lo scrittore militare sovietico Rebkin qualifica come “oltranzisti”: i quali ritengono non solo che la guerra possa essere ancora la continuazione della politica in età nucleare, ma anche che sia possibile condurre con successo una guerra con armi nucleari.
Fra gli anti-clausewitziani, invece, si collocano sia i teorici della cosiddetta “scuola liberale” (per i quali la minaccia della reciproca distruzione costituisce di fatto la migliore garanzia per il mantenimento della coesistenza pacifica), sia quelli che sempre Rebkin definisce come “utopisti reazionari di tipo contemplativo”: gli uni e gli altri uniti nella comune certezza che la guerra abbia ormai cessato di essere uno strumento della politica.
Convinti sostenitori che “bisogna dimenticare Clausewitz”, ma con accenti profondamente diversi dai teorici appena ricordati, vi sono poi i rappresentanti della scuola delle “ricerche sulla pace”, e i fautori di una strategia puramente difensiva di tipo territoriale (sul modello svizzero o jugoslavo), che dissuada il possibile attaccante attraverso la minaccia di una resistenza ad oltranza.
A metà strada fra le due correnti principali, potremmo collocare gli strateghi e i ricercatori americani come Herman Kahn, Bernard Brodie, Thomas C. Schelling, Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinsky ecc., i quali, pur negando alcuni presupposti tradizionali della polemologia di Clausewitz (in particolare la netta subordinazione della guerra alla politica e il rifiuto di metodi puramente quantitativi nel calcolo strategico), si sono sforzati di ridare razionalità alla guerra elaborando una filosofia dell’escalation in cui ad ogni grado della scala militare dovrebbe corrispondere una mossa politica.
La loro tesi, formulata fin dagli anni Cinquanta, si basava sul fatto che la strategia della “risposta massiccia”, adottata dagli Usa nell’immediato dopoguerra, fosse inadeguata di fronte alla minaccia sovietica poiché lasciava agli Stati Uniti solo due opzioni: lo scatenamento della guerra totale oppure il compromesso e la ritirata. Tale strategia, essi sostenevano, aveva sì impedito la “grande guerra” (la terza guerra mondiale) ma non aveva mantenuto la “piccola pace”: una pace cioè non incrinata da crisi e conflitti locali. La strategia della risposta massiccia doveva quindi essere abbandonata e sostituita dalla cosiddetta strategia della “risposta flessibile” o graduata, tuttora in vigore. Categoria-chiave della nuova dottrina era l’escalation che consisteva nel rispondere con colpi sempre più duri alle iniziative dell’avversario e che Herman Kahn, nel libro On Escalation. Metaphors and Scenarios del 1965, descriveva come un’abile combinazione di coercizione e di persuasione, di atti militari e di pantomime incruente, articolate su una ” scala ” di 44 gradini, dai livelli più bassi del “non si tiri troppo la corda”, alle guerre limitate, alla guerra spasmodica e insensata.
L’assunto implicito di questa e altre formulazioni era che la minaccia del dissuasore trasmessa al potenziale aggressore: a) sarebbe stata compresa; b) temuta; c) avrebbe dato luogo a una risposta razionale della controparte. In altre parole, si assumeva non solo che entrambe le superpotenze sarebbero state spinte ad un comportamento “razionale” (in seguito all’enormità del rischio), ma che ciascuna delle due avrebbe agito nel corso di una crisi in base alla medesima “razionalità”. Ma questo era – e rimane – appunto impossibile (o almeno non dimostrabile a priori), giacché in ogni caso non si conosce la valutazione che l’avversario fa delle singole mosse. Il risultato è che la scala, come ha dimostrato Glucksmann, è priva di razionalità, poiché i suoi livelli non sono in realtà graduabili: il suo grado minimo (lancio del primo missile) coincide con quello massimo (guerra nucleare totale).
Eppure, l’”oscuro oggetto del desiderio” degli strateghi contemporanei continua a restare quello di ridare razionalità alla guerra, superando la dicotomia fra armi nucleari (destinate alla dissuasione) e armi tradizionali (destinate alla difesa e all’attacco). Negli ultimi anni questo obiettivo è stato tenacemente ricercato perseguendo due strade differenti ma altrettanto pericolose.
La prima mira ad accentuare la flessibilità delle dottrine strategiche, sia prevedendo la possibilità di una guerra nucleare limitata e soprattutto preparandosi a vincerla (come nelle dottrine “limited nuclear options”di Nixon, e “countervailing strategy” di Carter e Reagan), sia migliorando notevolmente la capacità d’iniziativa e di manovra sul campo di battaglia convenzionale (dottrine “Strike Deep” e “Airland Battle” per la Nato e gli Usa; concetto dei “Gruppi operativi di manovra” per i sovietici).
La seconda strada è quella della realizzazione di uno scudo difensivo basato nello spazio e in grado, attraverso sofisticate armi laser e a raggi, di intercettare i missili balistici avversari (è il programma della Strategic Defense Initiative, preannunciato da Ronald Reagan nel marzo 1983 e noto comunemente con il nome di “guerre stellari”). Al di là dei dubbi che si possono avere sulla fattibilità tecnica di un simile programma, i maggiori interrogativi restano comunque sulle sue implicazioni strategiche.
È chiaro, infatti, che se una delle due superpotenze fosse effettivamente in grado di realizzare delle armi difensive “assolute”, essa renderebbe il suo territorio praticamente invulnerabile e potrebbe così imporre la propria volontà all’avversario. In pratica si passerebbe da una condizione di “certezza di reciproca distruzione” (in caso di attacco nucleare) ad una di “sopravvivenza assicurata”, che avrebbe probabilmente non solo l’effetto di destabilizzare l’attuale situazione internazionale, ma anche quello di aumentare i rischi di conflitto. D’altra parte, anche nel caso che il sistema di difesa antimissilistico non fosse sicuro al cento per cento, la sua efficacia verrebbe comunque sovrastimata dall’avversario creando un clima di sospetto e di paura che aumenterebbe i rischi di guerra. In ogni caso esso premierebbe chi volesse attaccare per primo: sarebbe infatti sempre possibile lanciare un attacco preventivo di primo colpo e utilizzare poi lo scudo spaziale per difendersi dai pochi missili avversari sopravvissuti.
In questi “giochi di guerra”, il ruolo dell’opinione pubblica non conta molto per gli strateghi militari. Come è stato osservato, “che la gente possa opporsi alle iniziative decise nei luoghi deputati appare allo stratega altrettanto assurdo che se in una partita a scacchi i pezzi avessero da recriminare per i ‘sacrifici’ che il giocatore fa allo scopo di vincere. Solo che, nel gioco reale, siamo noi i pezzi della scacchiera”.
Questo paragone con i pedoni della scacchiera, però, è ancora parziale e non rende pienamente la situazione in cui ci troviamo. Tutto lascia infatti ritenere che il negoziato fra le due superpotenze sulle armi stellari (come sugli altri armamenti strategici) sia un negoziato “truccato” e che esso si svolga su due livelli: uno esplicito (dicibile) e l’altro implicito o nascosto (indicibile). Ciò significa non tanto che esiste una dimensione segreta a livello degli obiettivi e delle strategie negoziali (il che è ovvio), quanto che una parte di queste trattative rimane “indicibile” solo per l’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Questo comporta che la comunicazione tra le due superpotenze sia una comunicazione “doppia”: dietro lo scambio di messaggi ufficiali e socialmente accettabili passano quelli che, nel linguaggio della psicologia transazionale, si chiamano “transazioni ulteriori”, cioè i messaggi impliciti e nascosti. Inoltre ciò implica che vi sia una discordanza fra le affermazioni di principio e le questioni effettivamente in discussione. L’opinione pubblica finisce così per trovarsi in una condizione paradossale: è chiamata a dare un giudizio sugli obiettivi e i risultati del negoziato, senza poterne però conoscere i reali contenuti. Una condizione questa che ricorda molto da vicino i nodi e i circoli viziosi descritti da Ronald Laing:
Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.
Il discorso a questo punto si conclude, deve concludersi, ma l’ultima parola non necessariamente deve essere rassicurante. Di fronte all’irrazionalità della guerra nucleare, potremmo terminare con un appello alla pace: l’animo ne sarebbe certo tranquillizzato (pacificato), ma la ragione non potrebbe nascondersi che il problema della guerra nei fatti continua ad esistere. E un simile appello, in ogni caso, non ci eviterebbe le accuse di chi (forse non del tutto a torto) continua a sostenere che ogni discorso sulla guerra tende inevitabilmente a trasformarsi in un discorso della guerra. Se è lecito avere dei dubbi al proposito, resta ancora una domanda. Chi non è “pacifista”, almeno a parole? Come diceva Clausewitz, anche colui che ci attacca in fondo ama la pace, vuole “solo” entrare pacificamente nel nostro paese; Per chi, come noi, non si rassegna né all’equilibrio del terrore né ad una pace indifferenziata, resta l’incerto terreno di un Terzo tra questi due estremi, in cui il conflitto politico e la differenza non siano negati a priori con la minaccia dell’olocausto finale.
Il lavoro, come sempre in questi casi, è tutto da fare e la grammatica di questo discorso (quale pace? quale conflitto?) aspetta ancora il suo autore.
Estratto dal saggio storico di Loris Rizzi “Clausewitz, l’arte militare, l’età nucleare”, Rizzoli Edizioni
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03Oct
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