03
Nov
All’attuale stadio di sviluppo di Internet abbiamo a che fare con infrastrutture e sistemi centralizzati che chiamiamo “piattaforme” e che sono completamente opposte alla precedente idea di architettura informatica.
La piattaforma è infatti l’esatto contrario della “rete”, la quale per definizione è decentralizzata e distribuita.
La piattaforma, invece, è “centralizzata”, corrisponde al vecchio stile di infrastruttura mediatica del secolo scorso. Una struttura che, per chi la gestisce, comporta vantaggi ed economie di scala: abbattimento dei costi e la possibilità di servire i clienti allo stesso tempo, con pubblicità e sorveglianza. È l’essenza di quello che Soshana Zuboff chiama “capitalismo della sorveglianza”, che produce la situazione in cui molte persone “si trovano in trappola”.
Internet, infatti, invece di essere uno strumento di potenziamento personale, attraverso le piattaforme, costringe gli utenti a procedere lungo un sentiero tracciato. Da qui nasce la sensazione di annichilimento, e le persone avvertono di essere senza via d’uscita, di non poter scappare
Alcune frasi comuni lo rivelano: “Non mi piace Facebook, ma devo esserci perché ci sono i miei amici”. O “Non amo Twitter, ma il mio lavoro comporta che io partecipi alle conversazioni”. Parliamo spesso di bolle, di camere dell’eco. Ma dobbiamo sottolineare un aspetto importante: si tratta di fenomeni che ci fanno sentire intrappolati e che sono tutti profondamente connessi all’architettura informatica, alle piattaforme.
Geert Lovink, nato ad Amsterdam nel 1959 e Direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, ha recentemente scritto “Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme”. (Tr Ital Egea- Bocconi editore, 2019). Il titolo originale è “Sad by design”. Si soffre di una tristezza progettata ma chi sono i designer?
In un’intervista a “La Lettura”, Corriere della Sera, 3 Novembre 2019, Geert Lovink afferma: “Le piattaforme come Google e Facebook sono progettate per incanalare gli utenti dentro percorsi obbligati che generano disagio”
Sappiamo chi sono i profittatori dal 2017, quando diverse persone hanno denunciato i meccanismi dei social media e delle piattaforme. Il 2016 è stato, infatti un passaggio cruciale: l’anno della Brexit, di Trump, di Cambridge Analytica.
Subito dopo abbiamo assistito a una consistente ascesa delle talpe, dei “whistleblowers”, di solito tutti professionisti che lavoravano per Google, Facebook, Twitter, Amazon, che hanno denunciato tecniche e dettagli cruciali sul modo in cui la “tristezza viene prefabbricata”.
Tristan Harris, prima etico del design di Google, oggi co-fondatore del Center for Humane Technology, è un esempio.
“Queste persone hanno contribuito a sottolineare la rilevanza delle neuroscienze e del comportamentismo nella progettazione delle piattaforme e nelle tecniche usate per aumentare la dipendenza delle persone, ad esempio con il meccanismo dei like. La dipendenza non è un effetto collaterale. Non è inevitabile. Si tratta di un fenomeno progettato, perfezionato, raffinato nel tempo. Tanto che mentre alcuni utenti lo notano, la maggior parte non ci fa caso. Basti pensare a come dal 2015 le persone hanno cominciato a spendere sempre più tempo sugli smartphone e sui social media”.
In altre parole, prima Harris e poi Lovink affermano che, sfruttando tecniche di psicologia del comportamento e la conoscenza dei meccanismi di funzionamento del cervello e dell’organismo umano, alcune grandi multinazionali hanno “scientemente” messo in atto dispositivi e percorsi per rendere gli utenti “dipendenti”. Dipendenti da Internet, dal web, dai perversi meccanismi di Facebook, Watsapp ed Instagram e dalla loro catena di “like”.
Le basi fisiopatologiche di questi meccanismi sono note fin dagli anni 80-90 del Novecento e utilizzano le distorsioni del “circuito” della ricompensa, centrato sui nuclei della base encefalica e sulla produzione e rilascio di “dopamina”, un mediatore e neurotrasmettitore cerebrale, che si attiva in risposta a vari tipi di piacere, ma in misura maggiore in seguito allo stress e alla produzione di cortisolo, ed è massimo quando il piacere è “superiore rispetto alle attese”.
Pertanto, con il complesso sistema degli influencers, che sono coloro che propongono un’immagine agli altri utenti, e dei followers, cioè coloro che aggiungono un “like” per dimostrare il loro consenso, si è messo in moto, a livello planetario, un meccanismo che può produrre “dipendenza” analogamente a quello che fanno le droghe per i drogati o il gioco d’azzardo per i ludopatici.
Non tutti vengono “colpiti” allo stesso modo, nel senso che i gradi più elevati di “dipendenza” si realizzano nei soggetti psicologicamente più fragili, quelli in qualche modo predisposti, e si manifesta attraverso un comportamento che porta da una parte a preferire “the smaller the sooner” (meno ma subito), piuttosto che “the greater the latter” (una ricompensa maggiore, ma più tardiva -e con qualche sacrificio) e, dall’altra, ad aumentare l’eccitazione ed il piacere attraverso l’ “attesa della ricompensa” piuttosto che la “ricompensa stessa”. In altre parole, si tratta di una profonda alterazione di uno dei meccanismi fondamentali del cervello e della reazione dell’organismo umano, che condiziona il comportamento, la risposta e la salienza motivazionale.
Ma, mentre i trafficanti o gli spacciatori di droghe sono puniti dalla legge, per il fumo di sigarette è obbligatoria la pubblicità “il fumo ti uccide”, e il gioco d’azzardo è in certo qual modo controllato e regolato, per questa, che rappresenta una delle maggiori cause di “dipendenza” a livello mondiale, non esiste alcun divieto e solo da poco tempo si stanno mettendo a fuoco i meccanismi con cui agisce e le possibili modalità di risposta e/o prevenzione.
Il problema è stato finora affrontato mediante l’approccio sociale e antropologico, ma può essere analizzato anche dal punto di vista fisiopatologico.
Chi è che è colpito? Non tutti. Sono prevalentemente i soggetti più fragili, quelli “naturalmente” predestinati. Congenitamente predisposti.
Quali sono i meccanismi patogenetici? Scarso senso critico, mancanza di studi adeguati e di una metodologia scientifica, una carenza che è maggiore nei soggetti più deboli e in quelli che non hanno predisposizione e training adeguato per lo studio serio, mirato all’acquisizione del “sapere critico”.
È lo stesso problema, con lo stesso meccanismo patogenetico delle “fake news,” che diventano meno “fake” quando giungono all’attenzione di persone dotate di “potere critico”.
Lovink suggerisce di non considerare la dipendenza dalle piattaforme come una “malattia”.
Al contrario, per me si tratta, dal punto di vista clinico, di una malattia. Infatti la definizione di malattia include “qualsiasi alterazione acuta o cronica del funzionamento fisiologico di un meccanismo corporeo”, in grado di produrre sintomi.
Ed in questo caso uno dei principali circuiti comportamentali è permanentemente alterato, con formazione di “dipendenza” (cioè persistente “distorsione” del meccanismo), e tendenza spiccata alle ricadute anche in caso di temporanea astinenza.
Il problema è che non c’è una cura, o una soluzione di tipo medico. Così come non c’è cura definitiva per la dipendenza inveterata da alcol, droghe o psicofarmaci, e non c’è cura definitiva per la nevrosi o la depressione. Si può fare opera di prevenzione, disincentivando l’uso di questi “strumenti pervasivi”, soprattutto nei soggetti più “fragili”, i quali però proprio per la loro fragilità intrinseca, sono quelli più facili da “sedurre” e sono naturalmente più attratti da tutto ciò che dà piacere e promette una ricompensa facile a immediata.
Secondo Lovink, non dobbiamo considerarci tutti “pazienti”. Infatti, come preciso con le mie argomentazioni, la “suscettibilità” non riguarda il 100% della popolazione. Solo una minoranza, quella dei soggetti fragili e congenitamente predisposti, è destinata a diventare “definitivamente dipendente”.
Afferma Lovink: “Rifiuto l’idea e non penso che ci sia una soluzione medica al problema, che è essenzialmente sociale, culturale e politico. L’effetto condizionante del web e il problema delle piattaforme digitali è un po’ come il cambiamento climatico: ci riguarda tutti. È legato a qualcosa di pervasivo, cioè all’architettura, alla parte più essenziale degli strumenti che usiamo ogni giorno.
Ma possiamo cambiarli, possiamo cominciare a parlarne, a dotare le persone degli strumenti per organizzarsi e ricostruire una diversa versione di Internet. Se costruiamo sistemi decentralizzati, completamente differenti da quello attuale, non ci troveremo più immersi in questa enorme tristezza”.
Le critiche all’algoritmo sono definite “brillanti” ma “impotenti”. Che cosa fare allora per passare dallo stadio della critica delle piattaforme al cambiamento sociale?
“Prima di tutto bisogna capire che cos’è l’algoritmo, abbiamo bisogno di alfabetizzazione tecnica nelle scuole, nelle università. Dobbiamo contrastare la perdita diffusa di abilità tecnica della gente. Pensavamo che lo smartphone migliorasse le competenze digitali, invece non ci offre alcuna capacità tecnica in più. L’unica alternativa seria è la cultura, l’apprendimento del “sapere critico”, quello che ci permettere di discernere il vero dal falso senza eccessivi condizionamenti. Ma non è facile da realizzare su larga scala e non è raggiungibile da tutti. Richiede tempo, dedizione e predisposizione individuale, “talento” per la critica.
A livello generale si può suggerire, come “class action”, di smantellare l’architettura delle piattaforme e di smontare i Data Center. Poiché proprio i “Data Center” sono i nuovi palazzi del potere, bisogna prenderli d’assalto se vogliamo un sistema democratico decentralizzato”.
Dobbiamo inoltre costruire un’alternativa. E farlo qui in Europa, perché attualmente le piattaforme sono negli USA. A Bruxelles ci sono discussioni in atto, ma riguardano essenzialmente questioni giuridiche, legate alla protezione del copyright e della privacy, come nel caso del regolamento europeo sulla protezione dei dati.
Dobbiamo andare più a fondo e progettare un’altra idea di relazione sociale nell’epoca del digitale.
Il modello economico di riferimento potrebbe essere quello dell’acqua, dell’energia, dell’elettricità, pensando alla costituzione di infrastrutture e aziende pubbliche. Internet diventa un bene comune se oltre ad essere condiviso da tutti è veramente pubblico. Resta però il problema di chi “possiede” o “controlla” il pubblico, che di solito sono i “politici al potere”.
Caligiuri nel suo “Intelligence e democrazia. Per un’intelligence democratica” (Formiche, 2021, 165, pp 52-63) suggerisce un’intelligence democratica, al servizio del cittadino, trasparente e “governata” in maniera responsabile. È un’utopia? Poichè l’intelligence ha necessariamente ha un’organizzazione di tipo gerarchico in cui le informazioni decisive si concentrano nelle mani di un numero sempre più esiguo di individui, c’è il rischio reale che si ingeneri poi la tentazione di usare per il proprio tornaconto queste informazioni e dar luogo a “servizi” di intelligence utilizzati a favore di una minoranza. È successo spesso nel corso della storia recente, in cui ci sono stati frequenti esempi di “servizi deviati”
Si può comprendere l’affermazione di Lovink dal suo punto di vista, quello socioculturale. Ma non si può accettare la conclusione che, siccome non esiste una cura efficace, allora la “dipendenza dai “like” o da qualsiasi altro strumento di distorsione del normale circuito della “ricompensa” provocato da un certo tipo di utilizzo di una piattaforma stimolato, o pubblicizzato dai suoi proprietari non costituisca una malattia.
La cirrosi, il morbo di Alzheimer sono quadri degenerativi incurabili. Il cancro diffuso che non risponde ai trattamenti è una situazione senza soluzione medica. Ma nessuno si sogna di non considerare la cirrosi o il cancro come una “malattia”. È fuorviante partire dalle conclusioni. “Siccome non si cura, allora non è una malattia”.
Al contrario, l’approccio fisiopatologico è l’unico che permette di “saperne di più”: sulle popolazioni più a rischio, su quali sono i fattori predisponenti, congeniti o acquisiti, sui meccanismi coinvolti, sui corrispettivi anatomo-funzionali della dipendenza. In questo modo si può fare diagnosi precoce ed effettuare per tempo un certo tipo di prevenzione.
Questo dal punto di vista dell’utente (“user side”, dal lato dell’utilizzatore della piattaforma).
Poi c’è il “provider side” (il lato del proprietario o del gestore della piattaforma), di cui a mio avviso si devono occupare in maniera attenta e continuativa sia gli stati sovrani e i governanti che l’opinione pubblica. Entrando anche in dettagli tecnici di utilizzo degli spazi, dei possibili utilizzatori, delle fonti di energia che si consumano, della rete telematica. Per esercitare uno stretto controllo in grado di vigilare, prevenire distorsioni ed evitare l’acquisizione di posizioni dominanti o di monopolio. Anche se la struttura della piattaforma, l’intento pervasivo, il controllo da parte di pochi, non costituiscono problemi strettamente clinici, la medicina, con l’approccio fisiopatologico, può comunque fornire un contributo, provando ad individuare gli aspetti più rischiosi e su cui può essere necessario esercitare un maggiore controllo.
Il recente “black out” del 4 ottobre 2021, che ha bloccato per circa 14 ore le piattaforme di Facebook con lo stop a tutti tipi di applicazioni, rappresenta l’occasione per ripensare in maniera critica i rapporti tra Internet e le piattaforme digitali in mano ai privati. Bisogna ricordare che ci sono stati 2 black out precedenti, uno il 29 marzo 2020 e un altro nel marzo 2019.
Il vicepresidente delle infrastrutture di Facebook, Santosh Janardhan, ha spiegato in un post che il black out a livello mondiale è stato provocato da modifiche alla configurazione dei router che coordinano il traffico di rete tra i suoi centri dati. L’interruzione del traffico di rete ha avuto un blocco nel punto in cui comunicano i nostri centri dati, bloccando i nostri servizi.
Il 4 ottobre 2021, per alcune ore Facebook è scomparso da Internet. Tutte le app del colosso di Me-nlo Park hanno smesso di funzionare e sono rimaste inaccessibili, sbattendoci in faccia quanto sia fragile l’equilibrio creato dalle grandi multinazionali della “tecnologia digitale”.
Tre miliardi e mezzo di persone, metà della popolazione mondiale, usano Facebook e Whatsapp, o Instagram per comunicare con amici e familiari, guadagnare, espandere le proprie attività, attraverso la pubblicità e la divulgazione. Il 4 ottobre non hanno potuto farlo.
Ciò ha evidenziato la fragilità del sistema creato da Facebook:
Lo usiamo per accedere alle “app”, ai siti web di shopping, per la smart Tv, accendere ii termostati e i dispositivi connessi ad Internet, ma anche per avere notizie di qualsiasi tipo.
In paesi come il Brasile, il Myanmar, o l’India, dove Facebook è sinonimo di Internet, i danni sono stati notevoli. Gli Indiani usano Whatsapp per telefonarsi, ma anche come strumento di pagamento e per veicolare informazioni.
Bloomberg ha stimato che la perdita economica mondiale è stata pari a 160 milioni di dollari per ora di interruzione.
Zuckerberg a Wall Street ha visto un calo del 15% del valore delle azioni, con una perdita di circa 7 miliardi di dollari. Secondo Adrienne Lafrance, Direttore esecutivo di The Atlantic, che ha seguito le vicende del colosso di Menlo Park, il Web non è solo fragile, ma è del tutto effimero. Otteniamo un falso senso di permanenza di questi giganti High Tech in piattaforme chiuse. L’interruzione del 4 Ottobre 2021 è sicuramente una promemoria di quanto Facebook “possiede” Internet.
Facebook è molto più una minaccia per la democrazia e per l’umanità, quando è online che quando è spento.
Kevin Roose ha scritto sul New York Times: “ Facebook è nei guai. Non per problemi finanziari o legali, e neanche per i senatori che nella apposita Commissione del Senato urlano contro Mark Zuckerberg. Quello di cui parlo è una sorta di declino lento e costante che chiunque abbia visto da vicino un’azienda morente può riconoscere. È una nuvola di terrore esistenziale che incombe su un’organizzazione i cui giorni migliori sono alle spalle. Questo tipo di declino non è visibile dall’esterno, ma gli addetti ai lavori ne vedono centinaia di piccoli e inquietanti segni: trucchi per crescere, ostili all’utente, frenetismo, paranoia dirigenziale, il graduale logoramento dei colleghi di talento”.
Il titolo di Facebook, già affossato dai “Facebook files”, ovvero dalle rivelazioni dell’ex dipendente che ha comunicato 10.000 pagine di file al Wall Street Journal rappresenta solo l’inizio di problematiche di più ampio respiro.
La “talpa”, la gola profonda, si chiama Frances Haugen, ed è un ingegnere informatico di 37 anni, laureata ad Harvard, ed assunta nel 2019 come informatica addetta ai dati. A causa di un lutto personale, a carico di una persona cara, ha deciso di denunciare i meccanismi giudicati “anti-etici” della società e di fornire la documentazione che aveva accumulato in tanto tempo al Wall Street Journal· (12.000 pagine di file), che sono state messe a disposizione del giornale e che sono ora anche all’esame della SEC (Security Exchange Commission).
Afferma la Haugen: “Ho visto conflitti di interesse tra quello che era buono per il pubblico è quello che era buono per Facebook. Facebook ogni volta ha scelto quello che era meglio per sé.
Il punto di non ritorno sono state le elezioni presidenziali del 2020. Prima c’era un piano di sicurezza, di monitoraggio sui messaggi di odio e di disinformazione che circolavano sui social, mentre dopo gli algoritmi sono cambiati e il sistema è diventato meno sicuro.
Allentare la censura nei confronti di determinati contenuti ha significato favorire la diffusione delle teorie sui brogli elettorali e le ipotesi cospirazioniste. A Facebook avevano pensato che se avessimo cambiato gli algoritmi in un’ottica di maggiore sicurezza, la gente avrebbe speso meno tempo sui social, e avrebbe “cliccato” meno anche le inserzioni pubblicitarie. Quindi ci sarebbero state meno entrate per Facebook. Hanno sempre preferito il profitto alla sicurezza”.
Haugen non risparmia Instagram, il social fotografico acquisito da Zuckerberg nel 2012.
In questo caso entra in gioco la salute femminile ed in particolare quella delle adolescenti. Una ricerca realizzata appositamente da Facebook afferma che più le giovani donne si interessano a contenuti legati al disordine alimentare, più entrano in depressione, e di conseguenza, usano maggiormente Instagram per postate foto e cercare siti specializzati.
Si tratta di un altro circolo vizioso di cui approfittano le piattaforme digitali: non importa se la tematica è delicata e avrebbe bisogno di una divulgazione controllata, (da parte di specialisti del settore, medici responsabili in un ambiente dedicato, come uno studio medico). Che cosa può essere più critico e da tenere sotto osservazione da parte di specialisti (e quindi da sottoporre a censura) del controllo dell’alimentazione da parte degli adolescenti per la ricerca egli strumenti più idonei, meno traumatici e meno dannosi alla salute per perdere peso?
Invece, secondo i possessori delle piattaforme digitali, se porta ad un aumento delle visualizzazioni, e quindi dei profitti, non va censurato.
Il problema su come usare la censura, che cosa censurare e che cosa no e, soprattutto, a vantaggio di chi, è una questione delicata. Soprattutto quando è in gioco la salute dei giovani e degli individui più fragili.
È come, facendo un confronto con le attuali querelle in campo calcistico, nelle discussioni in cui ci si interroga su chi decide quando ricorrere alla VAR e quando invece lasciare all’arbitro in campo (con quello che vede lui) la responsabilità di stabilire la regolarità del gioco. Con la telecamera e il replay si vedono meglio alcuni dettagli che spesso a velocità normale e ad occhio nudo non si vedono. Chi decide quando usare questi dispositivi? Bisogna usarli sempre? No. Solo, qualche volta. E a discrezione dell’arbitro o dell’addetto al VAR. Anche se c’è un regolamento scritto, si comprende che ci sono ampi “margini di discrezionalità”. Allora, quando si usano i dispositivi tecnologici? E, soprattutto, a vantaggio di chi?
In definitiva, sia la denuncia di due anni fa effettuata da Zuboff e da Lovink, che le recenti vicende, che hanno visto al centro Zuckerberg con le sue piattaforme Facebook, Whatsapp e Instagram, dimostrano come buona parte di Internet non è attualmente una struttura di interesse pubblico al servizio del cittadino, ma è “posseduta” per quote consistenti da Facebook che, facendo leva sulla gratuità dei suoi servizi (telefonate, messaggi e immagini scambiabili gratuitamente), realizza enormi profitti attraverso la pubblicità e i “like”. Poi cerca di aumentare l’utilizzo favorendo scientemente, in maniera premeditata, l’accesso e la ricerca di siti sulle proprie piattaforme, sulla base di accurati studi di neurofisiologia e psicologia cognitiva, di indagini su fasce selezionate di popolazione e sui relativi desiderata, favorendo così l’insorgenza di una vera e propria “dipendenza” nei giovani adolescenti.
Il problema per Wall Street e gli investitori saranno le quotazione delle aziende di Zuckerberg, o quanto sia proficuo continuare ad investire nelle sue società, oppure se si ritiene che abbiano già “dato il meglio”. Dal punto di vista del cittadino, ma anche da quello di un’intelligence che stia dalla parte della comunità, è importante invece prendere atto che il problema più attuale non sono i complotti di uno Stato contro un altro per ucciderne i cittadini con armi chimiche o biologiche, (come pure ogni tanto si lascia intendere tra le righe), o di un’azienda che deliberatamente costruisce armi di distruzione di massa, bombe intelligenti per uccidere persone, o altri strumenti di morte e distruzione. Almeno non è questa la situazione più frequente.
Quello che è invece costante, tollerato, addirittura spesso preso come modello ed esempio di buona gestione economica “it is still the same old story”: la ricerca spasmodica del profitto. In questo caso dalle multinazionali del web, che possiedono le piattaforme digitali. Il profitto deve essere ottenuto a qualsiasi costo. In maniera spudorata, senza limiti, e senza controlli da parte di chi dovrebbe controllare.
Sia il profitto economico a livello di stato-nazione, per prevalere in influenza su uno stato concorrente, (come nella guerra economica tra USA e Cina) che, ancora di più quello a livello della singola azienda o del singolo tycoon.
Anche se il magnate poi fa il filantropo, si schiera a favore della “green economy”, contro l’inquinamento del pianeta, conduce battaglie ecologiche, elargisce miliardi di finanziamento in beneficenza, è sempre, dico sempre e da sempre, interessato a fare solo i propri interessi.
Anche se questo danneggia i propri utenti, consumatori, clienti, utilzzatori di servizi.
Si risparmia sugli algoritmi che potrebbero schermare la diffusione di messaggi che incitano alla violenza. Non si effettuano adeguatamente migliorie tecnologiche, perché sono costose e possono diminuire i guadagni. Ma soprattutto si fanno studi, indagini di mercato, analisi sulla psicologia degli adolescenti e delle sotto-popolazioni più fragili, per indurle ad usare in maniera sempre più pervasiva i social media, a postare foto, cliccare, passare ore a visualizzare il numero dei “like”.
Tutto questo con i padroni del vapore che sono bene consci del fatto che stanno “inducendo dipendenze” nei minori, minando irrimediabilmente la loro salute. Anzi, la scelta è deliberata.
Perché proprio la creazione di queste “dipendenze” fa aumentare i ricavi della pubblicità, i guadagni, e “fidelizza” gli utenti che, come veri e propri “drogati”, non riescono più ad uscire dalla morsa infernale, dannosa per la salute fisica e mentale.. Un circolo vizioso che si autoalimenta. Tutti ne sono a conoscenza. La denuncia di Hogan, la “talpa” di Facebook rappresenta solo uno dei tanti esempi di danni alla salute, provocati da Instagram o dalle altre piattaforme, in questo caso, l’ “adescamento” delle adolescenti in cerca di siti per “perdere peso”. Situazioni in cui il “danno alla salute” è chiaro addirittura non ad un clinico, ma ad una esperta di informatica che di professione elabora i dati. Con l’approccio fisiopatologico si capiscono meglio sia i diversi meccanismi che sono alla base della dipendenza che il modo in cui le piattaforme riescono a stimolarli.
Io suggerisco un uso più esteso dell’approccio fisiopatologico anche nell’ambito di un sistema di “intelligence” che sia anche e sempre più al servizio dei cittadini e della comunità, e non solo dei proprietari delle piattaforme digitali.
Di Francesco Cetta
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