21
Oct
Il coraggio è una virtù inattuale, persino inopportuna, le circostanze chiedono proprio l’opportunismo offrendoci il tepore protettivo del conformismo. Ma senza la forza d’animo, la forza di provare quello che pensiamo di essere non si dà inizio a nulla.
L’opera, il lavoro, la creatività, il dono, persino l’errore e la sconfitta possono essere la misura di noi stessi che ci salva dall’inconsistenza.
È necessario dare inizio a qualcosa che ci superi. Il coraggio è funzione dell’intraprendenza, un impulso egotico che serve a costruire quell’identità che istituisce l’io quale soggetto di responsabilità attraverso la libera scelta razionale e morale di riconoscersi in un dovere. Nella fedeltà a un dovere si costituisce la persona morale, la sua integrità prima intima poi sociale. È questa consistenza di sé che consente di dominare la paura.
L’io si riconosce in questo consistere nella pratica e nella testimonianza di una corrispondenza tra il dire e il fare, se viceversa viene tradita è come mentire a noi stessi mentre viene dissolto il nostro credito di fronte agli altri.
Il coraggio è simmetrico alla paura, non esisterebbe senza cognizione del rischio, senza le prove del fuoco e le iniziazioni pericolose in cui ci si mette a repentaglio.
Nelle prove si scopre non solo ciò che si è ma anche il vincolo con la mancanza, l’inadeguatezza rispetto a ciò che vorremmo essere. Paradossalmente la prova è un privilegio esistenziale perché è solo chi affronta un’esperienza decisiva può crescere.
Nella comfort zone si sta immobili, spesso sedotti dall’inanità e dal plagio. “Stare fermi [non fare niente] o essere liberi”, è la tragica alternativa posta dalla classicità.
L’atto di coraggio ci espone al senso di colpa poiché nel suo affermarsi coinvolge anche il prossimo a cominciare da quello che è più vicino a noi, chiamando in causa la nostra responsabilità.
Come i capitani coraggiosi dei romanzi di formazione si assapora sia la presunzione di essere autori del divenire che la solitudine dell’autodeterminazione che il coraggio presuppone. Ma per affermare la vita si deve sempre condividere il cammino con il senso del limite. Dopotutto noi “siamo fatti delle stessa sostanza dei sogni”, la cognizione del limite non appartiene solo alla coscienza infelice ma anche all’umiltà, all’autoironia e persino al senso del vano che, per nostra fortuna, possono riportarci con i piedi per terra.
In fondo possiamo pensarci come una via di mezzo tra i capitani di Whitman o Konrad e il bracchetto Snoopy del fumetto Linus che sogna vite epiche.
L’Italia alleva impunemente il sentimento servile del bisogno di protezione (s’è visto nell’assistenza pelosa del reddito di cittadinanza sotteso alla logica del voto di scambio), come nei secoli della grande fame: “con la francia o con la spagna purché se magna”, dissolvendo in un immane spreco l’acme della potenzialità psicofisica delle giovani generazioni
Si sa che nessuno può insegnare il coraggio, la più soggettiva delle virtù, tuttavia è possibile preparare il carattere di una persona, la sua capacità di tenuta rispetto a eventi infausti e a ciò che si vuole.
È precisamente questo compito la precondizione della formazione di una classe dirigente, una preparazione di un dover-essere fino all’iperbole suggerita da Foucault di pensare se stessi come un’opera d’arte. Sul piano sociale ci basti sapere che non ci può essere rispetto di sé senza rispetto di appartenenza.
All’Italia manca la volontà strategica di istituire percorsi formativi per le classi dirigenti – come in tutti gli altri paesi occidentali, dilaga invece una determinazione reazionaria che reitera il nepotismo, la cooptazione e naturalmente disdice il merito. Una scelta nascosta dietro le parvenze di una vocazione egualitarista molto fraintesa.
La fortissima domanda di giovani promettenti – purtroppo quasi esclusivamente avanzata dall’imprenditoria privata, raccolta anche dal nostro Istituto – rimane senza risposta, resa sterile da questa tradizione del peggio di molte università e scuole superiori italiane.
Sarà il coraggio di chi non ha nulla da perdere se non la propria marginalizzazione e la propria insignificanza a fermare l’avanzata della linea d’ombra dell’alienazione giovanile?
di Ivan Rizzi, Presidente Istituto Alti Studi Strategici e Politici
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Bellissimo, il discorso del coraggio per contenuto, riferimenti e morale. Mi permetta una considerazione la conoscenza domina la paura, la smaschera e la assoggetta alla propria volontà. La conoscenza è la madre del coraggio. Si ha paura di ciò che non si conosce. Il coraggio di affrontare le nostre paure rinvigorisce, in modo esponenziale, parallelamente al grado di conoscenza acquisita e alla formazione. Il coraggio ti fa agire. L’azione è la conseguenza di ciò che si è “fatto” e “pianificato”, prepararsi al confronto per non far prevalere la paura.