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Mar
Il giallo, soprattutto la “Spy”, si addice al Regno unito. Vittoria era regina di Gran Bretagna e Irlanda, imperatrice delle Indie: sì, la leggendaria Vittoria che regnò per 64 anni. “Gran Bretagna, Irlanda, Indie…” nomi davvero evocativi. Era quello il centro del mondo. Per storia, politica, potenza economica, cultura e molto altro. “Commonwealth” è una delle parole più pronunciate negli ultimi secoli, meno nell’era recente, quasi più nell’era contemporanea. Foreign Office: c’era una rubrica fissa nei giornali radio e nei quotidiani di tutto il mondo, che raccontava i fatti del Regno, fino a non molto tempo fa. Scrittori come Kipling e Stevenson, come Conrad, Maugham e Forster, britannici nati in Ucraina e morti nel Kent (Conrad),o nati a Bombay e morti a Londra (Kipling), comunque sempre in giro nei due emisferi: sono loro, in quelle epoche, che hanno inventato una parte della nostra più bella educazione sentimentale, e anche culturale. L’incanto, il sogno, l’avventura, le terre lontane e tante terre, l’estremo oriente e il medio, l’India e l’Australia, l’Africa e la Cina, il Canada, le isole del Pacifico e dei Caraibi. Una cultura tutta sui libri, prima che arrivasse il cinema. I porti e le navi, le genti e gli animali, le armi e gli amori, il deserto e le carrozze, i poveri e i ricchi, quasi sempre i ricchi: tutto doveva essere desunto dalla scrittura, sforzo attivo di fantasia, non c’era un Gary Cooper offerto nei film, a usurpare l’immaginazione. E in che grande misura il cinema avrebbe attinto a quegli autori.
Dunque il Commonwealth comanda. Le storie di spionaggio in quegli scenari e contesti sono naturali e dovuti. Libri e film di genere hanno rappresentato e continuano a rappresentare quell’eccellenza e quel primato. Quel mare non è magnum, è praticamente infinito. Il metodo del racconto procederà per analogie e contrari, corsi e ricorsi, passi e contrappassi.
Il primo nome, fondamentale, è quello di Rudyard Kipling (1865-1936), premio Nobel nel 1907. Nel 1901 pubblicò Kim, ambientato sullo sfondo del “grande gioco”, il conflitto fra Russia e l’Impero britannico. Siamo nel 1893, comandano la regina Vittoria e lo zar Alessandro III. Lo scenario è l’India che lo zar cerca di sottrarre al dominio inglese. La vicenda è una spy quasi pura. Il ragazzo Kim, di padre inglese e madre indiana sopravvive a Lahore, arrangiandosi come può. E’ dotato di intelligenza e coraggio straordinari. Un agente britannico intuisce come Kim possa essere utile alla causa e lo addestra ad agire da spia. Il ragazzo si comporta da veterano, scova e ruba documenti decisivi. Scopre l’identità di due finti commercianti, in realtà agenti russi. Dovrà consegnare una mappa che sovrapposta a una carta geografica svelerà, attraverso punti precisi, i movimenti degli infiltrati russi. Trattasi di un rudimentale elemento di decodifica. Uno strumento che nel futuro si svilupperà esponenzialmente, cambiando non solo la ricerca, ma anche il mondo.
Nel 1950 il regista Victor Seville sceneggiò il romanzo e fece il film, che rispettava
la carta, del resto all’intreccio di Kipling non servivano particolari invenzioni o licenze, era già una sceneggiatura quasi perfetta.
Kim era prodotto dalla Metro Goldwyn Mayer, una major molto attenta alla rappresentazione il più possibile aderente al master letterario. Dean Stokwell, faceva Kim, performance che gli permise di entrare nel cartello Young Hollywood Hall of Fame, riservato ai bambini prodigio. Alla fine Kim compie la missione e il film finisce con le truppe inglesi che sfilano, vincitrici ancora una volta, al suono delle zampogne scozzesi.
IL MIO NOME E’ FLEMING, IAN FLEMING
“Da qui, dove mi trovo da 56 anni, che sono anche gli anni della mia vita terrena, dunque un equilibrio perfetto, prendo atto della novità che riguarda la mia creatura James Bond. Sembra che il nuovo 007, il settimo, sarà questo Tom Hardy, un londinese di 43 anni. Conosciuto ma non ancora popolare. Mi sembra che abbia una faccia da bravo ragazzo, troppo. Bond, io, non lo avevo pensato così. Staremo a vedere. Confesso che non vedevo l’ora che l’ultimo 007, quel Daniel Craig, si togliesse di mezzo. Dovrò sopportarlo ancora una volta, nel nuovo 007”, No Time to die, che mi dicono in uscita. Di Craig parlerò.
Approfitto di questa … ospitalità per puntualizzare un dato, qualcosa di strettamente personale, anche se non andrebbe dimenticato. In realtà Bond non è nato nel 1962 col film “Licenza di uccidere”. Esisteva da dieci anni, era infatti il 1952 quando, nella mia tenuta in Jamaica, scrissi il mio primo racconto con l’agente 007: Casinò Royale. Capisco che nella vostra cultura attuale lo scrittore sia un modello svalutato, ma io non intendo svalutarmi. Molti diranno: ecco, il solito snob, e confesso che la definizione è pertinente, anche se nella mia vita ho mostrato ironia e autocritica. Ed essere snob… non era colpa mia. Uno status che mi derivava da mio nonno Robert, banchiere scozzese, da mio padre Valentine, deputato conservatore e militare della gloriosa riserva inglese e da mia madre Anna Geraldine Rothermere, contessa.
Altri “impietosi” elementi di classismo britannico furono Eton, il college che formava, e forma, la classe dirigente inglese, e poi l’accademia militare e tutto il resto. E naturalmente il mio carattere, che esplicito in questa didascalia “ho sempre fumato e bevuto e amato troppo. In effetti ho vissuto non troppo a lungo, ma troppo. Un giorno il granchio di ferro mi agguanterà e allora sarò morto per il troppo vivere. E infatti sono morto a 56 anni, di eccessi.
Questa lunga premessa per dare sostanza e giustificazione all’affermazione che segue, di cui ho dato un segnale. Ribadisco, non mi piace quel Craig: uno che beve birra e che non sa portare lo smoking; che passa tante ore in palestra; che si approfitta della mia regina per il proprio marketing. E che… assomiglia a Putin, dopo che Bond e io stesso, durante la guerra fredda, abbiamo combattuto i russi.
La gestazione di Bond non è stata semplice, per questo tendo a proteggere l’identità della mia creatura. 007 veniva da una summa di mie esperienze che sfociarono, appunto in quel 1952, in qualcosa che mai mi sarei aspettato. Ero stato funzionario dei servizi segreti, giornalista, ma la narrativa non era contemplata. Fu un tentativo, uno stimolo, quelli li contemplavo. E all’inizio non ci furono grandi riscontri, finché uno bravo, bravo davvero, nato scrittore, Raymond Chandler, scrisse una recensione quasi entusiastica su un mio romanzo. Fatto inaspettato, appunto. Così come lo fu l’interesse di due produttori emergenti, Saltzman e Broccoli che acquisirono i diritti dei miei libri e produssero Dr. No, Licenza di uccidere, cronologicamente il mio sesto romanzo. Ero presente quando scelsero Connery, ed è risaputo che fu colpo di fulmine. Poco importava che fosse scozzese. Dr. No è l’unico film che sono riuscito a vedere, da vivo. Mi piaceva Connery, così come la sua prima girl, Ursula, che rimane un unicum. Quell’immagine di lei emergente dal mare e poi di loro due che camminano su quella spiaggia di Jamaica… E quanto amavo Giamaica, che ho messo in tanti romanzi. Hanno scritto che Bond, da me creato, ha ricreato Ian Fleming, che mi ero tanto immedesimato nel mio personaggio, da volerlo imitare. Può darsi. Ma dico anche che in James c’era molto di Ian. E comunque, se qualcuno, involontariamente ho imitato, quello è stato il primo grande modello, Sean. Negli anni, se fossi stato nella possibilità di scegliere, non so quanti ne avrei approvati.
Vediamo: il secondo, quel Lazemby, dico che era… australiano, non è necessario aggiungere altro. Roger Moore elegante, pettinato, perfetto, e biondo. È stato un buon compromesso, solo buono. Timothy Dalton mi piaceva, era molto vicino, per aspetto e stile, al Bond dei libri, forse era persino troppo raffinato, veniva dal teatro, aveva fatto Shakespeare. Soprattutto gli incassi non erano all’altezza delle aspettative. La regola, purtroppo è quella. Pierce Brosnan fa parte del cinema abbastanza recente, del tutto cambiato, pensato per chi va al cinema, che sono, per lo più, i giovani: azione, effetti speciali eccetera. Non è il mio mondo e non è il mio Bond. E poi Brosnan è un irlandese naturalizzato americano. Per un puro londinese come me è un dettaglio “culturale”… non da poco. Infine Craig di cui ho già detto. Tutto questo però non mi impedisce di esultare per 007 e per ciò che ha rappresentato e portato, di evasione, esempio, felicità alle generazioni che lo hanno frequentato. Come promemoria finale, credo naturale e opportuno a questo punto, ripropongo l’inizio di tutto. Parlo di parola naturalmente, non di fotogramma. L’incipit di Casinò Royale.
“Alle tre del mattino, l’odore di un casinò – sentore di fumo e di traspirazione – diventa nauseante. Poi, la tensione provocata dal gioco d’azzardo – un misto di avidità, di paura e di logorio nervoso – si fa insopportabile; i sensi si risvegliano e si ribellano. Improvvisamente James Bond si accorse di essere stanco. Si accorgeva sempre quando il suo corpo e il suo cervello ne avevano abbastanza, e agiva di conseguenza. Quell’istinto gli consentiva di non cedere al torpore e all’ottusità mentale, che sono all’origine di tutti gli errori. Si allontanò con discrezione dalla roulette dove aveva giocato e andò ad appoggiarsi per un momento alla ringhiera d’ottone che circondava il tavolo principale della salle privée.”
Vostro Ian
IL MIO NOME NON E’ BOND
A fronte dell’abnorme impatto di Bond-Connery le discipline, letteratura e cinema, cercarono di organizzare una reazione. Nacque così il filone –non reazione ma evoluzione- degli infiniti figli degeneri di Bond, i vari 077, 777 e via dicendo. Ma qualcuno accolse un concetto espresso da un membro dell’intelligence inglese: “Uno come James Bond, nella realtà del mondo della spie sopravviverebbe tre giorni.”
Fu Len Deighton, che aveva avuto esperienze reali in quel mondo, a creare l’agente Harry Palmer, protagonista di Ipcress, tratto dal romanzo omonimo. Palmer è esattamente il contrario di Bond. E’ trasandato, gira su un’utilitaria, passa metà del suo tempo a litigare col ragioniere per il rimborso spese. E certo non possiede quell’appeal. Però è tenace e coraggioso al momento giusto. Non molla mai la presa e risolve. E gli capita anche di riuscire a portarsi a letto una donna, magari meno affascinante di una Bond-girl. Ipcress di Sidney Furie del 1965, è il primo di altri sei “Deighton”, ed è considerato un classico fondamentale del genere: Palmer è incaricato di scoprire se due scienziati sono fuggiti volontariamente oltre cortina o se sono stati rapiti. Nel corso delle indagini, viene rapito e sottoposto al lavaggio del cervello, ma lui resiste. Scopre che uno dei suoi superiori è un traditore e, al momento opportuno … diventa 007.
Ricordabile anche Funerale a Berlino del 1966. Interessante è l’attribuzione alla regia. La produzione scelse Guy Hamilton che due anni prima aveva firmato nientemeno che Agente 007- Missione Goldfinger. Il regista toccava così i due estremi. Infatti “Funerale”, rispetto a Ipcress, presenta maggiore azione e spettacolo. Bond non gradiva essere … estromesso. La storia: un colonnello russo finge di tradire e chiede a Palmer di gestire il passaggio fra le due zone di Berlino affidando la missione allo specialista Kreuzmann, dell’intelligence britannica. Nella bara che attraversa il muro di Berlino, però, Palmer non trova il colonnello russo, ma il cadavere di Kreuzmann.
Il mondo spionistico di Deighton è dunque vicino alla realtà, così come il rapporto fra burocrazia e apparati di intelligence. I contesti politici raccontati dallo scrittore sono del tutto verosimili e le sue spie agiscono in un ambito concreto e possibile, ma come persone. L’esperienza di agente consente all’autore una visione del mondo e della storia tale da poterla mutare. Rende verosimile una realtà che non c’è. Ma sa come tenerla in pugno. Nella Svastica sul sole lo scrittore immagina che la Germania abbia occupato la Gran Bretagna e stia vincendo la guerra.
Di Pino Farinotti
critico, scrittore, docente universitario e collaboratore di IASSP Institute.
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