03
Feb
Gli Stati Uniti sono, si sa, una formazione relativamente recente, sorta dalla pulsione autonomista di tredici colonie britanniche sulla costa orientale le quali, ribellatesi alla madrepatria d’oltreoceano, raggiunsero il loro agognato obiettivo a seguito della guerra di indipendenza del 1776; in quel momento la famosa Dichiarazione del 4 luglio scritta da Thomas Jefferson sanciva l’ufficiale nascita degli Stati Uniti d’America, composti allora dalle sole suddette tredici colonie ribelli.
Ed evidentemente queste ultime fecero scuola. Sì, perché le spinte autonomiste si diffusero ben presto nei territori circostanti, i quali assaporavano sempre più concretamente la fattibile possibilità di liberarsi dei colonizzatori europei e, perché no, appropriarsi delle terre occidentali abitate dai pellirosse. Da quel momento, infatti, l’espansione verso ovest fu costante, non conobbe arresto e coinvolse necessariamente territori più a sud allora appartenenti al Messico, il tutto senza che la quadriennale parentesi della guerra civile ponesse fine a tale dilatazione geografica.
A dire il vero, definire “parentesi” la guerra di secessione è a dir poco riduttivo; la vittoria della fazione Unionista contro la Confederazione Sudista ha accelerato la potenza rivoluzionaria dei valori che erano alla base della Dichiarazione di Indipendenza dando loro legittimità, visibilità e soprattutto possibilità attuativa agli occhi del resto del mondo, ancora aggrappato a regimi governativi dove non veniva contemplata la sovranità popolare né tantomeno la suddivisione dei poteri. Divenuti, così, patria di libertà e di valori, alla fine del XIX secolo gli Stati Uniti d’America divennero anche terra di ricchezza (anche se distribuita in modo ineguale), sicché divenne opinione comune ritenere la crescente Nazione una terra dove la realizzazione dei propri sogni era un’aspirazione raggiungibile, dove chiunque poteva trovare la propria buona occasione. Requisiti necessari: impegno, diligenza e coraggio.
Non mancava, nell’opinione pubblica e nelle menti delle élite governative, quel pizzico di senso di superiorità civile nei confronti del resto del globo ed in particolar modo verso gli europei, quegli stessi europei che non smettevano di farsi la guerra e che avevano esportato autorità e schiavitù anche sull’altra sponda dell’Atlantico oltre che negli altri continenti, con la tratta degli schiavi e la continua formazione di colonie sparse qua e là per il mondo. Gli USA quasi si beavano della loro perfezione ma fu proprio un evento di matrice imperialistica che scosse gli animi degli uomini di governo americani dell’epoca, causato da velleità egemoniche da parte dell’esercito spagnolo su Cuba, la cui popolazione era ormai stanca di subire il regime dei colonizzatori e decise di ribellarsi: decisione fatale, poiché la reazione spagnola non fu proprio così magnanima.
L’episodio dell’affondamento della nave da guerra americana Maine, datato 1898, segnò una svolta nella politica statunitense dell’epoca in quanto per la prima volta nella storia della neonata Nazione si ebbero spinte volte all’interventismo, ad uscire dalle proprie mura domestiche, a mettere il naso fuori da quel recinto all’interno del quale tanta ricchezza e benessere potevi raggiungere. Per la prima volta gli Stati Uniti si sentivano in dovere di intervenire: ufficialmente in nome della salvaguardia dei valori democratici della pacifica popolazione cubana che chiedeva solo di riavere la propria libertà; in modo più velato per proteggere i capitali investiti e sfogare all’estero quell’ancora in fase embrionale malcontento che serpeggiava in casa per via dell’ineguale distribuzione di ricchezza.
La guerra ispano-americana suggellò la crescita degli USA al rango di potenza conquistatrice; superfluo specificare l’ammirazione di cui godeva per essere al contempo garante dei diritti dell’individuo, terra di opportunità e guardiano della legge. Amica degli oppressi, castigatrice degli oppressori.
Ma il successo non ingolosì l’America; allo scoppiare del primo conflitto mondiale ci volle un’intensa attività diplomatica franco-inglese, quattro anni di logorante guerra di posizione ed il serio, tangibile, imminente pericolo che il vecchio continente passasse nelle mani di regimi totalitari illiberali per smuovere il gigante d’oltreoceano e convincerlo dell’indispensabilità del proprio intervento per salvaguardare l’Europa, e quindi il mondo, da un ordine fondato su principi incompatibili con quelli americani (e quindi universali).
Lo stesso accadde vent’anni più tardi, quando le minacce nazi-fasciste resuscitarono i fantasmi della grande guerra, in realtà mai del tutto sopiti ma nemmeno mai del tutto scongiurati dai leader europei dell’epoca, troppo molli ed affabili nei confronti di chi scrupoli non ne aveva.
Da quel momento l’America cambia volto: sveste i panni del genitore che sorveglia dal terrazzo di casa i figlioletti giocare in giardino ed in quello stesso giardino vi giunge anche lei, consapevole che i propri incauti ed esuberanti pargoli si faranno male giocando o si supporranno già così adulti da voler oltrepassare la recinzione e andare nel giardino del vicino perché più bello, dotato di giochi nuovi, diversi, più stimolanti, migliori. E magari pretendendo di impossessarsene, come chiunque sia così puerile da ignorare le conseguenze delle proprie azioni ma credendosi così adulto da poter ottenere tutto facendo la voce grossa. Così gli Stati Uniti non si fideranno più; da quel momento gli Stati Uniti non lasceranno più l’Europa agli europei perché troppo, troppo sangue ha provato che essa è terra infuocata, nonostante il sommo esempio di tolleranza ed autodeterminazione (con marcate sfumature di puro idealismo) propugnati da Wilson nei suoi quattordici punti del 1918. Da quel momento gli Stati Uniti non abbandoneranno più l’Europa. Da quel momento l’Europa diventa roba degli Stati Uniti d’America.
Gli aiuti economici del Piano Marshall con i quali gli americani inondarono il vecchio continente non permisero solo la ricostruzione materiale delle aree distrutte dalla guerra, ma favorirono il rafforzamento dei sistemi produttivi e, perciò, la ripresa dei commerci internazionali, compresi ovviamente quelli con gli stessi Stati Uniti i quali diventano così il maggior partner commerciale dell’Europa. Di elevata importanza vi è anche il sostegno americano alla costituzione di un ordine europeo fondato su valori democratici e liberali mediante l’istituzione di organismi multilaterali volti alla salvaguardia della pace ed alla protezione dei commerci (vedi l’ONU, l’FMI, l’OECE, la CECA), spesso tramite l’uso di presìdi armati collocati su territori strategici a fungere da deterrente (vedi Patto di Bruxelles, NATO); il tutto guidato dal fantasma del doloroso richiamo di come le misure di ordine e riparazione adottate nel primo dopoguerra si rivelarono fallimentari. La vittoria della compagine occidentale nella guerra fredda dà nuovo slancio a tale ordine mondiale a guida statunitense; l’America è ormai protettore e garante del benessere economico, propugnatore di valori di pace ed uguaglianza che nessun rivale può sconfiggere né militarmente, né economicamente né tantomeno moralmente. Eppure ad un certo punto qualcosa si rompe.
Complice la questione razziale degli anni ’60 e l’opposizione europea alla guerra in Vietnam, a cui fa seguito una recessione economica iniziata negli anni ’70, l’immagine dell’America inizia a vacillare agli occhi del mondo intero, per poi venire immediatamente ripristinata con la vittoria della guerra fredda ai danni dell’eterno nemico sovietico che tanto minacciosamente metteva a repentaglio l’equilibrio in cui versava l’Europa; venuto, così, a mancare il rivale di sempre, avendolo reso più mansueto con accordi di tipo militare e diplomatico ma, soprattutto, grazie anche ai buoni rapporti intessuti da Kennedy con Krusciov prima e da Gorbacev con Reagan e George H. W. Bush poi, gli Stati Uniti svolgono, dall’inizio degli anni ’90, una politica meno intrusiva nei confronti del vecchio continente che si trova così liberato dalle pulsioni americane e sovietiche. La guerra in Iraq del 2003 contestata dalle fazioni europee acuisce le divergenze tra le parti; l’elezione di Obama ne suggella la distanza, sebbene il presidente afro-americano nel periodo post- elettorale del 2008 fosse accolto in pompa magna praticamente ovunque andasse. Le cancellerie europee non erano preparate all’idea che a sedere alla Casa Bianca arrivasse un leader che desse una svolta ai rapporti spingendo maggiormente sull’acceleratore del famoso concetto del “leading from behind”; per non parlare di come i rapporti si siano quasi completamente deteriorati durante il quadriennio trumpiano, con il tycoon che non ha mai risparmiato critiche ai suoi omologhi europei su innumerevoli questioni. Se nell’ultimo trentennio la politica statunitense verso l’Europa è mutata, negli ultimi quattro anni infatti gli Stati Uniti sembrano quasi irriconoscibili agli occhi di tutto il mondo: scomparsa è l’attitudine multilaterialistica che ha contraddistinto la modalità di agire nel secondo dopoguerra fino alla fine della guerra fredda, scomparso è lo spirito di collaborazione su temi di interesse internazionale, scomparsa è fisicamente (anche se in blanda misura) la presenza statunitense da alcuni palcoscenici strategici (vedi mediterraneo e medio oriente). Soprattutto scomparsa è l’attenzione alla comunicazione, alla diplomazia; fondamenta del soft power.
O forse sarebbe meglio dire che è mutata la propaganda, la retorica, volgendosi quindi in aggressiva, tempestosa e minacciosa di isolazionismo; fondamenta dell’hard power. Sì, perché il presidente uscente non ha mai apprezzato la formalità di un sistema internazionale multilaterale, prediligendo un punto di vista più introspettivo ed americanocentrico per far passare un messaggio che, in verità, gli USA portano avanti dalla fine della guerra fredda e che i leader europei stentano a comprendere: l’Europa è matura e non può dare più per scontato di essere in cima alla lista delle priorità degli Stati Uniti. Fino ad Obama gli americani chiedevano rapporti più equi e paritari; sotto Trump, invece, è proprio il rapporto in sé ad essere messo in discussione.
La situazione interna agli Stati Uniti, però, non è di aiuto al Paese: le crisi socio-economiche e politiche che affliggono la Nazione allontanano dalla mente degli osservatori l’ideale che ci si era fatto su di essa già dal momento della loro fondazione, accresciuto con la vittoria Unionista nella guerra di secessione, progredito a seguito del primo conflitto mondiale e schizzato a livelli indescrivibili dopo il secondo. Questioni interne ed esterne, quindi, mutano l’immagine internazionale degli Stati Uniti, percepiti ormai come potenza non più affidabile come una volta.
Si richiede un cambiamento di rotta. Si richiede una mossa che permetta una rapida ripresa nelle questioni internazionali ed in quelle interne. I due temi vanno necessariamente di pari passo in quanto uno Stato che vive una condizione interna così delicata non può di certo ignorare le questioni e le richieste della propria cittadinanza per volgere il proprio sguardo solo esclusivamente all’esterno; e comunque anche se lo facesse non risulterebbe tanto efficace nelle proprie azioni e perderebbe anche di costanza oltre che di autorevolezza (e quindi di credibilità). Prima occorre, perciò, ricompattare il fronte interno, unire i propri uomini, risollevare la popolazione dal cronico malcontento che la affligge da tempo filtrando le diversificate necessità del Paese a seconda delle caratteristiche geoeconomico-sociali del territorio, che mentre in Italia si esprime in dualismo tra nord e sud negli Stati Uniti si traduce in triangolo tra stati costieri, stati del sud e stati dell’entroterra.
Occorre qualcosa che unisca l’intera popolazione; non per forza che ne elimini le differenze (ma la percezione da dare deve essere quella…), bensì che faccia sentire ognuno come parte di uno stesso gruppo, che lo metta in relazione con altri individui con i quali sapere di condividere gli stessi diritti, la stessa fiducia nell’avvenire e la stessa fiducia nei confronti di uno Stato che ne rispetta il valore. E, per quanto possibile, che dia ai cittadini l’impressione di sentirsi tutti uniti dalle stesse idee (almeno su questioni fondamentali); occorre una mossa che assembli tutti a prescindere dall’estrazione sociale e soprattutto dalla visione politica, perché chiunque si trovi a governare il Paese più potente del mondo non abbia l’arduo e scomodo compito di dover badare prima al dovere e poi al piacere, ossia a dover domare prima questioni interne per dover arrivare a volgere l’attenzione all’esterno. Istintiva vocazione di ogni superpotenza che si rispetti.
Ecco, questo sarà il primo compito di Joe Biden: ricompattare la Nazione. Se non ricompatti i tuoi uomini non puoi pretendere di riuscire a dominare le altre potenze, o aspiranti tali; forse ci potrai anche riuscire, ma di certo non nel lungo periodo. Il mal di pancia non ti permette di rendere al meglio in una gara di atletica. Biden dovrà unire tutti gli americani, compresi gli ispanici e gli afroamericani, avendo la bravura di farli sentire tutti appartenenti ad uno stesso organismo che ha come obiettivo quello di proteggere la loro vita garantendo un florido avvenire; non a caso, infatti, uno dei pezzi forti del nuovo presidente in campagna elettorale è stato la promessa di espansione di misure sociali nei confronti dei meno abbienti, cosa che gli è sicuramente valsa un gran numero di voti. Ma l’aspetto economico non è l’unico fattore che ti crea consenso: gli Stati Uniti portano ormai l’etichetta di Paese dove regnano disuguaglianze non solo di tipo razziale ma anche tra gli stessi americani, convinzioni che di certo non puoi risolvere con uno straccio imbevuto di dollari. Quello che serve è una nuova mentalità condivisa che compatti la Nazione, che unisca tutti. E gli Stati Uniti ce l’avranno.
Biden, ovviamente con l’ausilio del suo staff (oltre che dei consulenti meno avvezzi alle apparizioni pubbliche…), cambierà il modo di fare politica. Attenzione: non la politica in sé. Ma il modo di farla, il modo di porla, il modo di venderla. Così come cambierà linguaggio rispetto al suo predecessore; cambierà tattica lasciando però immutata la strategia. Cambierà la propaganda, cambierà la retorica.
Agli occhi più analitici può sembrare che siamo già in fase di cambiamento ed i tumulti avvenuti il 6 gennaio a Washington contro il Palazzo del Congresso, in occasione della proclamazione del neo-eletto presidente, a mio avviso fanno riflettere. Sfido a pensare che la bilancia penda più dalla parte di chi approva i disordini e le distruzioni avvenute a Capital Hill piuttosto che dalla parte di quelli che ne sono rimasti indignati; a parte i diplomatici, addirittura alcuni esponenti del partito repubblicano ne hanno preso le distanze, in alcuni casi dimettendosi o abbandonando il partito. Addirittura lo stesso Donald Trump (al quale si riconduce la responsabilità dell’accaduto) ad un certo punto ha chiesto ai manifestanti di placare i loro animi e di ritornare nelle proprie case.
Biden non ha esitato a dichiarare in diretta mondiale, durante la sommossa, che la vera America non è quella che traspariva dalle immagini, che la vera identità americana è un’altra. Per inciso, agli omologhi di tutto il mondo: quella che vi è stata mostrata durante il mandato Trump era solo una momentanea distorsione; la vera America tornerà. L’occasione è stata colta appieno per unire tutta la popolazione in un diffuso sentimento di sgomento generale e di empatia nei confronti della nuova governance, malcapitata vittima sacrificale di una mente mai stata lucida che ha aizzato una folla di delinquenti e vandali, per di più senza mascherine (apriti cielo…).
In quel momento tutti gli americani, indipendentemente dall’origine, dall’estrazione sociale, dal colore della pelle, dalla religione e dall’appartenenza politica si sono dimenticati di tutte le differenze che li ponevano spesso gli uni contro gli altri per unirsi in un gigante abbraccio attorno al Congresso, metonimia della nuova leadership a guida Biden. Da allora tutti gli americani dimenticano le diseguaglianze, le ingiustizie ed i paradossi che li affliggono da decenni per congiungersi tutti intorno allo stesso sentimento di repulsione nei confronti di eventi del genere e di chi li possa causare: Trump diventa così il nemico collettivo contro cui scagliarsi. Con un pizzico di ironia potremmo dire che il tycoon è riuscito nell’ardua impresa di unire sotto un solo ideale tutti gli americani, i quali hanno trovato nel nemico condiviso contro cui scagliarsi il minimo comune denominatore per sentirsi popolo, Patria, Nazione, Impero.
Un nemico comune stringe e consolida i legami di chi si unisce contro di esso per combatterlo (anzi, spesso ci si unisce apposta, per convenienza, per metterlo fuori gioco); un po’ come il ruolo assunto nella seconda metà del ‘900 da Corea, Vietnam e Russia… Un onore di cui in questa epoca storica, più che in ogni altra, può godere la Cina. E cosa c’è di meglio, per compattare una popolazione, che scagliarsi contro un nemico universalmente considerato tale e, per di più, inteso come latente minaccia per chiunque? Non a caso le testate giornalistiche di ogni angolo del mondo non fanno a meno di esplicitare il fatto che Trump non abbandonerà il mondo della politica. Così come la Cina non abbandonerà il suo tipico atteggiamento che la rende costante minaccia commerciale, così come l’Iran, la Corea del Nord e la Russia non abbandoneranno i progetti nucleari, con quest’ultima colpevole anche di non abbandonare la propria innata intenzione a minare gli equilibri politici europei e, perché no, mondiali.
Con un sentimento popolare tale, la nuova leadership americana potrà dedicarsi alla politica interna con meno pressione e, al contempo, non commettere l’errore di declassare la politica estera a fattore di secondaria importanza; soprattutto, rispetto alla precedente amministrazione godrà di un’altra reputazione da parte dei propri cittadini, i quali saranno suoi alleati e per questo meno inclini alle ribellioni, alle manifestazioni di protesta ed alle critiche (in memoria dei fatti del 6 gennaio), portando più fiducia e, quindi, pazienza.
La reputazione degli USA cambierà anche agli occhi esterni, agli occhi di un mondo che ha smesso di vedere gli Stati Uniti come li vedeva una volta; da ora gli Stati Uniti ritorneranno patria di democrazia, giustizia, uguaglianza e pace da esportare. E poco importa se le richieste di Biden non si discosteranno tanto da quelle di Trump: la retorica e la propaganda del neo-presidente, colui che, ricordiamo, ha sconfitto il nemico comune e che è stato vittima di una rivolta ingiusta e violenta da parte di quest’ultimo, lo aiuteranno nei rapporti internazionali, ad ottenere ciò che l’egemonia richiede, grazie anche ad una palese apertura alla ricostruzione dei rapporti con alcuni satelliti non più in orbita. Sarà un lavoro lungo, ma darà i suoi frutti: ad oggi, nonostante l’incrinazione dei rapporti, alcuni Paesi non possono fare a meno della presenza americana vuoi per motivi commerciali, vuoi per motivi militari o di sostegno diplomatico.
Con il cambio di leadership alla Casa Bianca l’America ha dato un taglio al proprio recente passato; con il cambio di leadership alla Casa Bianca l’America ritornerà al soft power; con il cambio di leadership alla Casa Bianca l’America tornerà a prendersi cura delle alleanze perdute; con il cambio di leadership alla Casa Bianca l’America riscrive il proprio concetto di “democrazia”.
Con il cambio di leadership alla Casa Bianca l’America, semplicemente, tornerà.
Valerio Borrelli
Analista finanziario
Diplomato IASSP, Master Intelligence Economica
(fonte immagine: https://www.tvblog.it/post/biden-insediamento-diretta-tv-20-gennaio-2021)
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