07
Oct

L’intelligence è un elemento essenziale per la difesa dell’interesse nazionale. Lo sanno tutti, ma è sempre bene sottolineare che, senza l’intelligence, nessun tipo di difesa dell’interesse nazionale è mai possibile. Dal vecchio Alexandre De Marenches, capo dello SDECE di Parigi, che una volta disse al suo intervistatore “Ah, non sa quanto siano utili gli incidenti stradali!” alle grandi operazioni finanziarie e industriali, come quando un operatore dei nostri Servizi arrivò ad essere trader alla Borsa di New York.
L’intelligence serve, in particolare, a proteggere i sistemi produttivi e i vantaggi comparativi di ogni singolo Paese o area commerciale che sia capace di utilizzarla bene. L’intelligence delle strutture produttive è sempre congiunta alla stabilizzazione del vantaggio comparato di un Paese, alla protezione dei mercati finali dei prodotti-e servizi-chiave della formula produttiva di un Paese, alla forte diminuzione dei costi politici, culturali, sociali della gestione dei mercati finali, esteri ma anche interni; infine alla creazione di una dipendenza strutturale tra i cicli economici del Paese-bersaglio e che è anche compratore dei nostri beni e servizi, rispetto al Paese con maggiori vantaggi comparati.
L’intelligence è sempre asimmetrica e garantisce, nei limiti del possibile, la prevalenza geo-economica di chi la sappia utilizzare. Essa sigilla una condizione di superiorità strutturale di un Paese rispetto ad un altro. Naturalmente, qui non si tratta solo di sapere, ma anche di fare, perfino nel senso ironicamente utilizzato da De Marenches.
Oggi i sistemi produttivi sono diffusi e non possono certo essere identificati con un solo Paese. Le Catene Globali del Valore, per mezzo delle quali peraltro si è diffuso il Covid-19, si saranno ancora il meccanismo di base per la produzione di beni complessi e maturi, che senza questa rete avrebbero un bassissimo utile.
Le CGV servono soprattutto per beni come l’auto, l’elettronica, la meccanica, sono anche molto rallentate oggi ma, anche se la Cina farà ritornare molte delle CGV nel suo territorio, non saranno certo abbandonate a breve. La presenza e il peso delle CGV in un Paese definiscono le sue alleanze (si pensi alla Spagna per le auto tedesche) la sua formula produttiva per tutto ciò che non è dentro le CGV, le prospettive di sviluppo economico e le alleanze finanziarie.
Certo, l’economia si è gradualmente dematerializzata, il flusso delle informazioni strategiche e tali da creare o mantenere un vantaggio comparativo è ormai globale, la produzione dei beni si va trasferendo nei Paesi “terzi” o dell’area asiatica; ed è sempre maggiore il peso delle stime finanziarie sulle scelte economiche. Ma, finché si produrrà ancora qualcosa e si utilizzerà quindi il commercio internazionale, l’intelligence sarà essenziale e sarà proprio la finanziarizzazione, in futuro, a renderla inevitabile e, magari, onnicomprensiva. Si pensi al comportamento di molte banche di affari, oggi, che hanno strutture di intelligence al loro interno da far invidia a molti Stati.
Siamo, di fatto, passati da una intelligence economica in atteggiamento di difesa ad un economic warfare di attacco.
Nulla è oggi stabilizzato o certo, nel sistema dei vantaggi comparativi, le informazioni strategiche sono essenziali, oggi più di prima, per evitare “bagni” finanziari e operazioni di attacco sui propri titoli di debito, sulle proprie aziende-chiave, perfino su quella che Marx chiamava le “forze produttive” che, alla fine, sempre per Marx, formano un “modo di produzione”. Occorrerà sempre di più proteggere tutto, ma anche aprire tutto, perché i sistemi produttivi futuri saranno basati su tecnologie protette, certo, ma diffuse con sistemi informatici Open Source. E sarà sempre più necessario proteggere la qualità e la efficienza della forza-lavoro. Si pensi a certe operazioni, iniziate all’inizio degli anni ’70, che hanno destabilizzato il ciclo della formazione dei ceti medi e dei tecnici.
Pertanto, non si tratta più di proteggere unicamente un singolo mercato o un vantaggio comparativo “chiuso” e definito, ormai scopo pressoché irrealizzabile nel sistema globalizzato, ma di persuadere e di trasformare il nemico in amico, il concorrente in collaboratore, l’Altro nel Sé.
Come diceva Freud, Wo Es war, soll Ich werden, dove c’era l’inconscio delle pulsioni contraddittorie lì si incardina l’Io, la coscienza, la Ratio. L’Economic warfare è, sempre più spesso, gestione delle percezioni.
Si è ormai assottigliata la differenza tra infowar economica e psywar geopolitica, e anche la differenza tra guerra economica e conflitto militare è sempre più tenue. Le guerre si vincono anche creando nuovi consumi, modi di vita, paradigmi di comportamento e di comunicazione politica vicini agli interessi, reali o immaginari, del proprio Paese.
Si ricordi qui tutto il dibattito, negli anni ’90, sul bipartitismo, o la passione per le privatizzazioni, spesso piuttosto farlocche, che proprio in quegli anni divenne di massa. Modelli che erano estranei alla nostra storia politica e economica si trasformarono in “assoluti”, perché l’Italia, perso il suo ruolo economico e politico legato alla guerra fredda, accettava senza colpo ferire l’imposizione di criteri economici e organizzativi esterni alla nostra tradizione. È la debellatio, come quando i Romani distrussero Cartagine, alla fine della Terza Guerra Punica nel II secolo a.C., gettandovi poi il sale sul terreno. Ogni psywar porta sempre alla debellatio.
Si possono anche utilizzare modelli culturali e di consumo-comunicazione anche di un Paese avverso o, comunque, concorrente. Si pensi qui all’americanizzazione giovanile nell’Europa post-1945, o al mito british, soprattutto per le classi che si credono dirigenti.
Esiste, allora, un nation branding offensivo, che abbatte la credibilità dei mercati di un determinato Paese e restringe l’appeal globale dei suoi prodotti a maggior vantaggio comparativo.
L’Italia è quindi uno dei paesi occidentali che ha avuto il massimo livello di defamation del proprio sistema intelligence. E anche di defamation completa di sé stessa. Quando un giovanissimo Giulio Andreotti era alla censura cinematografica, ebbe a dire a un giornalista che tutti questi film pieni di poveracci, tristezze, miserie e disastri, il neorealismo appunto, erano negativi per l’immagine dell’Italia che, proprio allora, si stava rimettendo in piedi rapidamente. Naturalmente, fu fatto segno al solito florilegio di aggettivi offensivi, facilmente immaginabili. Ma aveva ragione lui.
Mentre il neorealismo mieteva successi, spesso meritati, in tutto il mondo, gli Usa, e si trattava di uno dei tanti codicilli del Trattato di Pace, invadeva i nostri cinema con l’american dream, magari con Frank Capra (siciliano d’origine) che dirige nel 1946 La Vita è meravigliosa, oppure Blue Skies, con Fred Astaire e Bing Crosby.
Chi ti comanda lo può fare solo perché “ti ha preso l’anima”, semina nel tuo inconscio, ti ha preso quindi non una “sostanza” ma quel meccanismo, che Platone inventa, che è insieme costruzione della Ragione e del controllo di sé, ma anche dell’abisso dell’indeterminato, dell’indistinto a cui si ritorna con la morte. È questa la polarità platonica che viene manipolata da chi, appunto, “ti prende l’anima”.
Dopo oltre dieci anni, è quindi il momento di registrare i tempi e i risultati, con i relativi limiti e i pregi, della riforma dell’intelligence italiana avvenuta nell’agosto 2007, con tutte le successive aggiunte e modificazioni.
Si tratta, in primo luogo, di rivalutare gli effetti di un’apertura post-riforma del sistema intelligence nei confronti della società civile, apertura che si è manifestata nella nomina dei due esperti di comunicazione che si sono susseguiti all’interno del DIS (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza) per occuparsi del rapporto tra l’intero sistema intelligence e il mondo esterno, ovvero i mass media e la società, compresa l’idea dell’allora autorità delegata ai Servizi, il Sen. Marco Minniti, di fare il roadshow nelle università.
Sono tutti meccanismi di rapporto con il mondo esterno estremamente interessanti, sul piano sia della conoscenza che del reclutamento. Questi elementi, certamente positivi, vanno però a coprire con lentezza e fatica un deficit di conoscenza del Servizio da parte del pubblico (e della classe politica) e anche una strategia della diffamazione che è presente in tutto l’arco della Storia repubblicana italiana, a partire dagli anni ’60 fino a oggi, relativi proprio al rapporto tra intelligence, classe politica e soprattutto pubblica opinione.
Certo, all’epoca, i motivi del rapporto tra classe politica al Governo (quindi necessariamente Atlantica) e classe politica occultamente, e in parte, al Governo (non Atlantica e legata a mondi avversi) erano geograficamente evidenti, per tutta una serie di situazioni storiche che hanno visto l’intelligence italiana sistematicamente bersagliata, anche per motivi strutturali, dalla gran parte della classe politica e della pubblica opinione. Senza particolari differenze, peraltro, tra la pubblica opinione «governativa» e l’opinione pubblica «dell’opposizione».
I Servizi sono stati il tappeto sotto al quale le classi politiche hanno nascosto la loro polvere. Certo, governare con Servizi dimidiati, magari credendo che gli Alleati te la diano gratis, l’informazione dico, è stato un atto di immane ingenuità, ma si trattava di classi dirigenti che, a parte i leaders, era formata da piccola borghesia famelica e, spesso, ignorante.
Quando, nel 2007, arriva la riforma dei Servizi Segreti italiani, questa ha soprattutto una ratio squisitamente politica. Ma quanto è fondata questa stessa ratio politica, attualmente? Il primo elemento di quello che potremmo chiamare il “fondamento politico” della Legge del 2007 riguarda la fine del mondo bipolare: già in fase di dibattimento della riforma, una parte di studiosi e di esperti di intelligence sosteneva che era in atto la fine della possibilità concreta di un’invasione dall’Est e di una risposta convenzionale da parte di altre forze. Ovvio, ma non è quello il problema. E, comunque, i progetti si fanno calcolando anche il worst case.
Il Patto di Varsavia era capace di infliggere danni molto gravi all’Alleanza Atlantica, ma mai sarebbe riuscito a conquistare la grande pianura europea, come la chiamava Raymond Aron. Tuttavia tutto questo non deve essere la priorità dell’intelligence, che si occupa soprattutto del rapporto machiavelliano tra mezzi e fini, mentre gli Stati Maggiori lavorano sul contrasto visibile e militare.
Questo equilibrio atipico non ha innescato una pacificazione tra i due mondi, ma ha moltiplicato la concorrenza globale e strategica tra le varie aree. In una prima fase, dopo la caduta ufficiale dell’URSS, con l’accordo di Belaveza dell’8 dicembre 1991, ci fu una vera e propria colonizzazione americana, in pieno far west, delle spoglie dell’Unione Sovietica.
Werner Sombart nel 1906, nel suo libro Perché non esiste il Socialismo negli Stati Uniti? si interrogava sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Una questione che aveva incuriosito Sombart reduce, nel 1905, da un viaggio negli Stati Uniti, a cui egli rispondeva parlando anche di “frontiera aperta”, che con la sua possibilità di raggiungere terre ricche servì da valvola di sfogo per tutti gli scontenti.
Il socialismo fallito della Russia diviene quindi, proprio con un modello sombartiano, un terreno fertile da conquistare.
Poi, in breve tempo, questo meccanismo di Far East (ma con le regole del Far West) si ruppe.
La formazione della Federazione Russa ci ha fatto comprendere quanto lo “Stato profondo” di Mosca non abbia mai accettato la sua sconfitta geopolitica, mascherata da fallimento economico, ritenendola ingiusta. Non era poi così reale il crollo sostanziale del bipolarismo sostenuto da chi vuole dominare l’Eurasia. Un contrasto che è scritto nella realtà dei fatti e non solo nella Storia dei nostri sistemi politici. E non finirà con la fine del comunismo sovietico.
Chi ha pensato la riforma del 2007, almeno sul piano politico, ha quindi focalizzato una “minaccia numero uno” che era, genericamente, il terrorismo islamico. Un assunto che sollevava, già allora, qualche dubbio, divenuto in seguito alquanto evidente. Ovvero, che il jihad “della spada” e il jihad “della parola” sono due fenomeni che, come direbbero i giuristi, integrano la fattispecie del terrorismo, come tutti i paesi europei hanno visto e patito gravemente.
Il terrorismo, prassi politica che nasce in Russia poco prima della rivoluzione bolscevica, è però solamente una delle tante tecniche di una guerra irregolare di contrasto, penetrazione e destabilizzazione dei nostri sistemi economici e politici. Il terrore, che nacque come tecnica di controllo politico interno nella Francia del 1793-1794, è una delle molteplici forme di strategia indiretta messa in atto nell’universo politico, attraverso il jihad della spada, contro “i crociati e i sionisti” (gli ebrei tutti e noi occidentali, secondo la formula di Bin Laden). In un’intervista su un quotidiano degli Emirati di qualche anno fa, un personaggio molto vicino all’Emiro del Qatar diceva chiaramente che l’investimento nell’universo occidentale è una forma di guerra contro “gli infedeli”.
Quindi, non soltanto il terrorismo come quello che abbiamo tragicamente vissuto in tutta Europa e negli Stati Uniti, ma anche una vera e propria guerra economica, con l’acquisto, per esempio, di alcuni settori produttivi rispetto ad altri, oltre a tutta una serie di tecniche di diffamazione e manomissione delle fonti. Che sembrano, spesso, molto più raffinate di coloro che le usano. Il terrorismo, nel senso del camionista che va sulla Promenade Des Anglais di Nizza e uccide molte persone proprio durante la festa del 14 luglio, è certamente un problema gravissimo; ma è sempre il «visibile», il decimo esterno di un iceberg che ha particolarità molto più complesse. L’intelligence dovrebbe vedere molto dell’invisibile.
Per quanto poi riguarda la cybersecurity, la normativa di base e le successive integrazioni della legge del 2007 aprono spazi legali e tecnici che permettono l’espansione e la valutazione appropriata di questo tipo di pratiche di contrasto.
La parte dell’intelligence riguardante le tecniche meno ortodosse (non nel senso della prassi, ma dell’analisi) come appunto la cybersecurity e l’invasività di eventuali operazioni di penetrazione cyber dell’avversario, sono state astrattamente scritte, senza essere normate in maniera esplicita e potente, in modo tale da permettere ai tecnici, agli operatori sul terreno e agli analisti di fare davvero una reale azione di difesa. Se non si proteggono gli operatori anche quando bordeggiano il pericolo che qualche Pretura gli rompa le scatole, come è già accaduto, si dice implicitamente all’operatore stesso “non farlo”. Tanto nessuno ti proteggerà quando arriverà l’avviso di garanzia, e il tuo lavoro, la tua carriera, la tua immagine verranno gettate alle ortiche da qualche magistrato che non sa distinguere, sulla cartina geografica, l’India dal Pakistan. Le “garanzie funzionali” introdotte nella normativa 2007 servono comunque a poco.
In generale però, a parte il barocchismo molto pericoloso sulle operazioni consentite anche in deroga alle norme (norma che ha permesso ai magistrati milanesi di opporsi ripetutamente al direttore del SISMI per il caso Abu Omar), la normativa del 2007 contiene tutta una serie di elementi, più di difesa che di attacco, appesantiti da procedure complicate e sempre post factum. In questo contesto, nessuno farà mai niente, per paura del solito giudice.
Esiste poi un altro elemento di parziale arretratezza di questa normativa. Siamo un paese tra i più internazionalizzati economicamente, abbiamo a che fare con un sistema economico e finanziario del tutto globale, eppure non possediamo, per esempio, l’École de Guerre Économique, una scuola di guerra economica come quella francese, che sia stabilmente vicina alle imprese primarie.
Anche in Germania è stata costruita tutta una rete di stiftung, ossia di fondazioni di alto livello scientifico legate anche al mondo politico (Ebert, Bertelsmann, Bosch, Krupp, Von Humboldt ecc.). La normativa italiana del 2007 non è stata pensata per questo tipo di “nuove” operazioni, che probabilmente occuperanno gran parte dell’intelligence del futuro. In Francia, per esempio, stanno lavorando sull’intelligence culturale, ossia all’analisi di tratti culturali adattati, trasmessi o difesi che sono indiscutibilmente rilevanti per l’intelligence.
I conflitti non muoiono mai, si trasformano o migrano.
La teoria politica sottostante alla legge del 2007 è ancora l’embrassons-nous tra vecchia maggioranza e vecchia opposizione. È una riforma, questa, che va letta all’interno del sistema politico italiano, non all’esterno. Esiste, certamente, una pluralità di riferimenti e doveri politici in capo al sistema intelligence.
La riforma del 2007 dei Servizi Segreti italiani, ricordiamolo, è intervenuta ben trent’anni dopo l’ultima riforma del settore. È venuto quindi meno un sistema complesso di rapporti tra l’intelligence e la classe politica, le strutture della sicurezza interna e la diplomazia. Pensare che l’intelligence sia da coprire di norme, come se fosse un plesso scolastico, è follia. Churchill lo aveva già preannunciato alla Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943, “l’Italia avrà tutto, meno che l’autonomia in politica estera”.
Nel lasso di tempo che va dalla Riforma del 1977 a quella del 2007 sono avvenuti due grandi eventi che hanno causato una rottura evidente con l’ordine mondiale precedente.
La prima trasformazione del quadro è legata alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e alla progressiva mutazione verso un mondo multipolare – o anche apolare, come viene talvolta definito. Il bipolarismo degli Usa è fin dall’inizio estraneo alla UE e ai suoi interessi strategici. Washington si prende poi l’Islam “radicale” balcanico e si muove verso la Turchia in funzione antirussa. Dopo la fine dell’URSS e del patto di Varsavia, non vi sarà, come alla fine delle due guerre mondiali, un ridisegno geopolitico globale e la definizione delle zone di influenza tra le nuove potenze emerse. Tra cui alcune non-statuali: il jihad della spada, i movimenti “colorati” della democrazia in Asia Centrale e ai bordi della vecchia URSS, spesso strumenti del soft power Usa e della Cina.
Vi sarà, dopo la caduta del Muro, solo il Far West strategico, che comunque non è ancora cessato. Il secondo evento determinante è quello relativo all’attacco alle Torri Gemelle, a seguito del quale venne fuori, per la prima volta nella Storia, l’aspetto globalmente violento del terrorismo jihadista. Che riempie il vuoto strategico lasciato da europei e Usa nel Medio Oriente. Il jihad diviene quindi strumento polivalente, adatto alle necessità di questa o quella potenza, senza poi nemmeno escludere buoni e talvolta occulti rapporti, tramite la Fratellanza Musulmana, con Paesi dell’Occidente.
L’Occidente, peraltro, si era già cimentato con forme di terrorismo nazionale; l’Italia in particolare ha dovuto affrontare due sfide straordinarie, quella del terrorismo interno delle Brigate Rosse e quella dello stragismo mafioso. Entrambe queste sfide furono vinte grazie alla capacità di prevenzione e repressione che si sono sviluppate, nel tempo, nel nostro Paese.
Nel momento in cui si è arrivati alla seconda riforma del settore dell’intelligence, quindi, lo si è fatto, forti di un background investigativo molto ben strutturato. La riforma del 2007 nasceva soprattutto per una ragione: mettere in campo la più forte capacità di coordinamento possibile tra le strutture di intelligence. E superare, quindi, la logica della guerra fredda. Primo errore: la guerra fredda non è cessata, si è solo trasformata.
Prima della legge 124/2007 le due capacità operative nazionali dell’intelligence erano profondamente separate. La situazione interna, frutto di una destabilizzazione costante, era cosa ben diversa dagli equilibri esterni. Da una parte c’era il Sisde, servizio civile che dipendeva gerarchicamente e funzionalmente dal Ministero dell’Interno; dall’altra c’era, allora, il Sismi, un servizio militare ed “esterno” che dipendeva gerarchicamente e funzionalmente dal Ministero della Difesa. Il luogo di coordinamento, che all’epoca si chiamava Cesis, era di scarso peso operativo ma di qualche rilievo analitico.
Nel 2007 il problema della legislazione diviene quello di ricondurre l’intelligence tra le spire di una classe politica apparentemente unificata, almeno dopo “Mani Pulite”. Era stata unificata, diciamolo brutalmente, proprio perché aveva fallito, in tutte le sue frazioni. Nella nuova norma del 2007, l’intelligence, quindi, dipende integralmente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Cattiva idea anche questa. Era meglio la Presidenza della Repubblica.
Non più il frazionismo infra-partitico della vecchia “Prima Repubblica” quindi, ma un’evidente necessità di individuare forme – non semplici – di coordinamento, ovvero di controllo politico unificato, che non si basassero solo su capacità individuali, ma su procedure ben definite. Controllabili, definite, ma anche aperte a tutte le frazioni della classe politica.
Si decise, allora, di procedere verso un ente di forte coordinamento, il DIS, Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che tenesse in campo e in azione due agenzie i cui poteri fossero ben delimitati: l’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) per il controllo delle attività di intelligence sul territorio nazionale e l’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) per le attività, appunto, esterne. Il risultato, oggi, è che le due Agenzie si sono tenute ben strette le loro specificità operative e informative. E non le passano nemmeno al DIS.
Da questo punto di vista, la riforma del 2007 è del tutto fallita. Esterno e Interno non sono due separazioni razionali. Le minacce attuali sono tutte globali, sia per la loro pervasività che per i loro effetti. Una separazione tra esterno e interno è soltanto un vecchio pregiudizio burocratico. Burocratismo che rischia di trasformare il Servizio interno in una Questura di provincia (è la battuta di un vecchio dirigente del Sisde) e quello esterno in un Centro Studi.
L’ideale sarebbe quindi avere una grande Agenzia di Intelligence unitaria, tuttavia essa sarebbe un pugno in un occhio per una classe politica debole, ricattabile, paurosa per i suoi affari e affarucci e per le sue relazioni (talvolta pericolose) con organizzazioni interne o esterne non del tutto commendevoli. La penetrabilità di questa classe politica italiana alle operazioni di influenza di altri Paesi è, nei Servizi alleati, leggendaria.
Una classe politica stabile ed efficace, quindi, oppure una intelligence funzionante, questo sembra essere il dilemma attuale dell’Occidente. Le due cose non sembrano coniugabli. Il principio della Legge 2007 n. 124 sembra quindi essere stato quello di mantenere due agenzie, con finalità e missioni separate e rigidamente circoscritte, che costituisse l’elemento migliore per creare un ambiente di cooperazione positiva.
È avvenuto, come si poteva ben immaginare fin dall’inizio, l’esatto contrario. Come faceva il DIS a costringere le due Agenzie a trasformarsi? Il DIS è oggi, quindi, una istituzione quasi obsoleta dopo il meritorio tentativo, compiuto da Giampiero Massolo, di renderlo davvero un sistema unico di riferimento per tutta l’intelligence nazionale.
Una prima scelta di fondo operata da questa legge è stata, inoltre, di perpetuare il processo di accentramento del potere di indirizzo avviato dalla legge del 1977.
Ma, dunque, come si coordinano il COPASIR, il Primo Ministro, e il resto del sistema?
Il tutto rimane sul piano della Direzione e del coordinamento, molto vago e potenzialmente policratico: il DIS esercita il controllo sull’Aise e sull’Aisi, verificando la conformità delle attività di informazione per la sicurezza alle leggi e ai regolamenti, nonché alle direttive e alle disposizioni del Presidente del Consiglio dei ministri.
Bene, il controllo normativo è quindi solo del DIS o anche della Presidenza del Consiglio? E il COPASIR opera un controllo di legittimità o di tipo solo funzionale, in rapporto agli obiettivi predisposti per ogni operazione? Ed è poi razionale che il Servizio passi ben tre controlli di legittimità, come se fosse una gita di tifosi con il DASPO?
Per lo svolgimento di questa forma di controllo opera peraltro un apposito ufficio ispettivo, tra i cui poteri rientra quello di svolgere operazioni ispettive ex-post su richiesta del direttore generale del DIS e previa autorizzazione del Primo Ministro.
Come si tutela quindi, ma davvero, il segreto? Dove è il rapporto tra segreto istituzionale e quello operativo? C’è modo di separarli? Un pericoloso barocchismo giuridico tiene quindi sulla corda chi compie le operazioni e, questo, naturalmente, non è affatto un bene.
La soluzione più comune sarà quella di non fare niente di pericoloso, anche se è ordinato dal Direttore del DIS o delle Agenzie. E il Primo Ministro? Che fa? Se egli diverge dal Direttore del DIS, crea un disastro istituzionale, ma se non lo fa può sempre dire che era colpa del Dipartimento, lavandosene le mani.
Ricordiamoci che l’intelligence è sempre una prassi che crea una norma. Non scritta, ma sempre di norma si tratta. Pensare che le operazioni di intelligence siano del tutto normabili è una utopia e, forse, una follia. La follia di un azzeccagarbugli che si è formato sulle leggi contro l’abigeato o i confini agricoli.
Marco Giaconi
Analista d’Intelligence già Direttore scientifico CEMISS
(testo inserito nell’ultimo saggio IASSP Intelligence Economica. La Nuova Guerra Commerciale, edito da Rubbettino, 2020)
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