29
Jul
di Giulio Tremonti
È mia consuetudine aprire le Conferenze cui sono chiamato a partecipare con un’introduzione – che considero quasi una mia civetteria – finalizzata ad indicare precisi punti di riferimento, coordinate culturali, riguardo all’evoluzione del pensiero politico moderno.
L’ordine delle considerazioni che vorrei fare si iscrive nell’ambito di tre date importanti: il 1648, il 1789 ed il 1989. Credo che queste date, pur distanti nel tempo, siano fortemente significative anche con riferimento a quello che sta succedendo in questi giorni.
Il 1648 è l’anno della Pace di Westfalia che segna l’atto di nascita del modello politico moderno e propone, e nel contempo riconosce, l’idea della sovranità originaria di uno Stato sul proprio territorio. se prendete in esame la Costituzione italiana, potrete riconoscervi il modello Westfalia nell’articolo 11 che recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il concetto di Stato come soggetto politico significativo, introdotto dal modello Westfalia, viene progressivamente superato da una evoluzione politica che riconosce sempre meno gli Stati come sovrani sul rispettivo territorio. Nel “modello Westfalia” uno Stato può massacrare la propria gente sul proprio territorio, in quanto questo è considerato un problema di politica interna. Nel superamento del modello Westfalia uno Stato non può compiere massacri sul proprio territorio adducendo che si tratta di un problema interno, in quanto la questione, in un continuo ibridarsi, assume connotati sia di politica interna che estera.
Fuori da ogni dubbio, comunque, la pace di Westfalia del 1648 traccia le linee entro le quali è circoscritto il concetto di Stato Moderno.
La Rivoluzione Francese – siamo all’altra data fondamentale del 1789 – con l’entrata in gioco della macchina giacobina perfeziona e sublima la struttura politica moderna.
Il trionfo di questo nuovo concetto di Stato si pone nella prima metà del ‘900, con la proposizione dello Stato totalitario o totalizzante che conosce, poi, un progressivo declino – poco evidente nel mezzo secolo di Guerra Fredda, che ha in qualche modo “congelato” e sospeso tutti i fenomeni di cambiamento che pure erano in corso – fino ad entrare in crisi con la fine dell’era dei blocchi contrapposti.
La terza data importante è il 1989, l’anno della Caduta del Muro di Berlino, che segna il principio della fine del modello Westfalia e quindi l’inizio della crisi dello Stato-Nazione con l’avvento dell’economia globale e dell’età nuova che stiamo cominciando a vivere.
In quell’anno (ricorreva il bicentenario della Rivoluzione francese) ricordo di avere scritto, non come giornalista ma come opinionista del Corriere della Sera, un articolo di fondo che invitava a leggere il 1789 come data di avvio di rivoluzioni parlamentari indirizzate alla costruzione della forma moderna dello Stato, mentre giusto due secoli dopo, il 1989 avrebbe segnato l’avvio – questo era il titolo dell’articolo – delle “rivoluzioni extraparlamentari”.
Mi permetto di far notare che nel 1989 nessuno di coloro che adesso parlano di crisi dello Stato-Nazione faceva simili affermazioni.
Ma quali sono le cause della crisi? Dopo un periodo di circa 50 anni in cui, come ho già detto, tutto è stato in qualche modo “congelato” è inevitabile che la susseguente fase di “scongelamento” abbia attivato processi organici di dissoluzione, nell’ambito dei quali il fenomeno più significativo è la fine del ruolo politico classico del territorio.
Ovviamente il territorio conserva ancora un suo valore politico ed economico nell’ambito della scala dei valori, ma questo, certamente, è molto minore rispetto al passato soprattutto perché si è modificata la struttura della ricchezza. Un tempo il territorio era il container della ricchezza, sia che questa fosse di tipo agrario, sia che si trattasse di ricchezza mineraria od industriale. Al riguardo, per quanto concerne l’industria, basti pensare all’impianto delle grandi macchine sul territorio ed in particolare alle strutture che facevano da contorno alle prime grandi macchine a vapore che costituiscono il nucleo originario dell’industria. In questi termini il territorio – sul quale poi si irradiavano le reti fisiche, quali le strade e le ferrovie – assumeva un suo valore specifico fondamentale.
Progressivamente, tuttavia, il territorio ha perso di valore perché la struttura della ricchezza si è dematerializzata spostandosi verso il settore finanziario in progressione crescente. Il processo è, in un qualche modo, iniziato nel dopoguerra per poi radicalizzarsi ed esplodere, dal 1989 in poi, con una vertiginosa accelerazione.
All’epoca dei miei studi, il brevetto era un modo giuridico per proteggere la produzione fisica che avveniva nei capannoni, era il diritto che consentiva di proteggere il prodotto verso l’esterno. Attualmente il brevetto è esso stesso il bene di produzione, nei bilanci delle società si trovano iscritti all’attivo i diritti immateriali, gli untangible assets, la produzione avviene in giro per il mondo, la vera ricchezza non è nel possedere il capannone ma nell’acquisire il diritto immateriale, il know how, che consente di organizzare una rete di produzione che non necessariamente è posizionata presso il luogo dove si trova la società nel cui attivo di bilancio stanno i diritti.
Il valore della ricchezza immateriale è cresciuto vertiginosamente. Se prendete in esame un compact disk potrete osservare che il valore del silicio è minimo rispetto al valore del compact, mentre il valore del software è enormemente superiore rispetto al valore del bene fisico nel quale il diritto è incorporato.
Ai nostri giorni è ormai superata l’ideologia politica e morale originaria che considerava come bene chiave la terra.
Se Rousseau vivesse adesso non identificherebbe più il criminale primario nel tizio che si appropria della terra ponendovi delle recinzioni e se Walt Disney creasse adesso e volesse stilizzare le forme moderne “neo-paperoniche” della ricchezza non utilizzerebbe Paperon de’ Paperoni, che identifica magnati quali Morgan o Rockfeller, bensì inventerebbe un personaggio identificabile con l’informatico Bill Gates. Questo per indicare, in modo fin troppo semplice, qual è l’evoluzione che ha subito la struttura della ricchezza.
Il territorio conta sempre di meno mentre contano sempre di più i valori immateriali e, nell’ambito dei valori immateriali, i valori finanziari. Si calcola che per ogni operazione reale, ovvero per ogni vendita di un bene, se ne verifichino mediamente almeno dieci di tipo finanziario. Per quanto concerne la produzione, ad esempio, questa non avviene tutta direttamente in fabbrica, dove si produce sempre meno, poiché le imprese satellizzano e denazionalizzano la produzione, attivando circuiti e flussi finanziari attraverso i produttori esterni. Le macchine non sono necessariamente acquisite in proprietà, bensì sono prese in leasing mediante un’operazione finanziaria. Quando l’impresa fattura all’estero, come spesso avviene, deve “swappare” la fattura contro il rischio di cambi; in pratica l’operatore deve fare un’altra operazione prima di investire la tesoreria, rendendo in tal modo possibili tante altre operazioni a catena.
La struttura della ricchezza è sempre più dematerializzata e sempre più finanziarizzata. Estremizzando, in cinquant’anni siamo passati dal territorio agrario come mito politico (l’ossessione di Hitler era il Lebensraum), dal legame ideologico ossessivo per la terra e dallo spazio fisico al cyberspace. La nuova area dove si produce ricchezza non è più quella orizzontale e fisica, bensì quella sovraordinata, composta da lettere, nella quale circolano le nuove strutture di produzione immateriali.
In tale contesto Internet si pone come metafora positiva del cambiamento per tutti i meccanismi di produzione e di circolazione dei valori immateriali.
Il ruolo politico del territorio non fisico è considerato talmente importante per il commercio elettronico, che non a caso l’amministrazione degli Stati Uniti riserva a questa materia un’attenzione straordinaria. Se aveste occasione di parlare con i diretti collaboratori del Presidente americano o con uno dei membri del Congresso la seconda cosa che vi verrebbe chiesta è quale sia l’atteggiamento del vostro Governo e del vostro Parlamento su Internet, quali siano le vostre idee in materia di copyright ed in materia di tassazione del commercio elettronico.
Alcuni ritengono che su questi circuiti non fisici ma immateriali circolerà il nuovo sistema di potere del mondo. Coloro che interpretano i fatti in modo più negativo, come Le monde diplomatique, rilevano che i circuiti utilizzano tecnologia e lingua americana e che la moneta è il dollaro, per concludere che come l’impero romano si irradiava sulle vie imperiali, così l’impero americano si irradia sulla via informatica Internet.
Non è un caso che in questa fase l’orientamento e l’atteggiamento americani siano a favore della massima libertà per questo genere di attività, in quanto maggiore è la libertà maggiori sono le possibilità di diffusione degli strumenti di cui parliamo. Una volta fatta la legge ed imposta al resto del mondo adesso gli americani vendono ed impongono le attività commerciali.
Dopo aver brevemente affrontato questo argomento, che meriterebbe considerazioni ed analisi di ben più vasta portata, torno al problema del territorio per tracciare uno scenario di previsione.
Come già detto il territorio ha perso di valore: un tempo si faceva la guerra per conquistare il territorio altrui, mentre ai nostri giorni non si fa più la guerra a scopo di conquista ed inoltre tra grandi Stati e su vasta scala la guerra non si fa più.
Sembra quasi un’ironia della storia: tenere una Conferenza in questi giorni affrontando il problema della guerra in questi termini. Nel 1913 il giornalista Nomen Hangel, vincitore del Premio Nobel nel ’12-’13, scrisse un libro all’epoca famosissimo intitolato “La grande illusione”. Il libro era basato su un’ipotesi: gli scambi commerciali, industriali, finanziari tra gli Stati sono così intensi che la guerra è impossibile, ed inoltre i legami tra Londra, Berlino e Parigi sono così stretti che non si verificherà mai più una guerra. A dimostrazione dell’assunto nel ’14 scoppiò la guerra.
Se prendessimo ad ammaestramento quanto sopra sicuramente ne dedurremmo che bisogna essere più cattivi per essere buoni profeti. Personalmente ho comunque l’impressione che la guerra su vasta scala e tra grandi Stati non convenga più, nel senso classico del termine. Investire su una guerra, intesa come guerra classica e dunque concepita come conquista del territorio e dei possedimenti altrui, comporta un ritorno negativo in termini economici, politici, morali e quindi non risulta più conveniente.
A mio parere quello che in realtà è successo, ed è il fenomeno politicamente, culturalmente e civilmente più straordinario dalla metà del dopoguerra in poi, è che l’avvento del consumismo ha decretato la fine del romanticismo. Intendo il romanticismo come quell’infernale cocktail di valori, simboli e leggende, miti, musiche e stati maggiori che ha insanguinato il secolo. Nel bene o nel male questo sistema concettuale è stato sostituito dal consumismo, brutto sul piano estetico e morale, ma certamente artefice del dissolvimento di quel cocktail infernale di valori.
Fino a 30-40 anni fa la democrazia non era diffusa ovunque in Europa, si pensi ad esempio a Paesi quali la Grecia, il Portogallo, la Spagna e soprattutto a tutto l’Est europeo; oggi invece c’è democrazia in Europa, in America del Sud, e c’è addirittura democrazia nel Far East o si comincia a costruirla. Probabilmente è scesa la qualità della democrazia ma è enormemente cresciuta la quantità di democrazia tanto che possiamo affermare che in 30-40 anni è cambiato oggettivamente il mondo.
Questi effetti sono stati sicuramente prodotti dalla fine del meccanismo di controllo territoriale esercitato dalla macchina giacobina e quindi dalla fine del dominio territoriale chiuso. Il conseguente ritorno alla circolazione dei beni, dei servizi e delle merci ha cambiato la struttura del mondo, ha lavato via i miti romantici, ha introdotto meccanismi pacifici di consumo, ha mutato le strutture politiche dell’esistente.
Al posto della guerra – questo è il tema centrale della Conferenza – è sorta la competizione.
Secondo Klausevitz la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, ai nostri giorni possiamo affermare che la politica prosegue con la politica e che, essendo diventata la guerra un cattivo investimento, piuttosto che fare la guerra gli Stati preferiscono dedicarsi alla competizione. Infatti non è più necessario conquistare il territorio degli altri per impossessarsi dei loro beni; è sufficiente attrezzare il proprio territorio per conservare la propria ricchezza e/o attrarre la ricchezza altrui.
Questa scelta di competizione, attraverso la riorganizzazione delle strutture dell’esistente, è la scelta fondamentale scaturita dall’Europa di Maastricht. Il senso politico dell’Europa di Maastricht, infatti, non è tanto nella Moneta Unica, quanto nella riduzione delle prerogative di ciascuno Stato allo scopo di rigenerare il Vecchio Continente e di metterlo in grado di competere con l’Oriente.
La linea politica propria dei Governi, prevalentemente conservatori, che hanno dato vita a quel Trattato non è certamente la stessa delle compagini laburiste attualmente al potere in molti Paesi europei. Tuttavia il senso profondo di quel Trattato è nel vincolo posto agli Stati con il parametro del 3% per quanto concerne il deficit (significa che per ogni 100 lire di spesa pubblica solo 3 possono essere spese in deficit), tutto ciò, in realtà, si traduce in un vincolo per quel che riguarda i meccanismi di approvvigionamento dei mezzi finanziari. Il senso del parametro del 3% è meno Stato più privato, meno Stato più mercato e su più vasta scala, su scala continentale, rappresenta il tentativo di sostituire la vecchia ed ossificata struttura politica del Continente europeo con un’entità che, mediante la riduzione dello Stato, consenta un più alto grado di competizione.
Questa è la scelta politica di Maastricht giusta o sbagliata che sia. Ma non basta, ciascuno Stato deve a sua volta competere con gli altri Stati all’interno dell’Unione europea, posto che l’unificazione dell’Europa in un Unico Mercato con un’Unica Moneta accentua e non riduce i fattori di competizione delle varie economie che tale mercato compongono: cresce e non si riduce la competizione dell’Europa sull’Europa e tra Stati europei.
Nella competizione assumono un ruolo chiave nuovi e diversi tipi di fattori. Finiti i differenziali di cambio e finiti i differenziali di inflazione, si radicalizza il ruolo strategico competitivo di altri tipi di differenziali, quali i fattori politici ed i fattori tecnici, fra cui ricordiamo le reti, le infrastrutture, i meccanismi di comunicazione.
Tuttavia risultano fondamentali nella competizione anche i fattori immateriali propri del capitale umano e riassumibili nelle tre “I”: Inglese, Impresa ed Informatica.
Il concetto è più ampiamente descritto in un libro che risale a qualche anno fa, di cui sono coautore insieme ad Edward Luttwak, intitolato: “Il fantasma della povertà”.
La tesi espressa nel libro è in sintesi la seguente: l’Occidente esporta ricchezza in quanto, come noto, i flussi finanziari prodotti in area occidentale girano per il mondo e non restano radicati nel Paese di origine, comunque non rimangono mai in Europa od in America. L’Occidente al contempo importa povertà non solo a livello fisico, attraverso il flusso migratorio, ma anche sul piano parametrico o competitivo, dato che le antiche aristocrazie operaie ed i ceti impiegatizi dell’Occidente, immersi nella competizione globale, vedono i propri salari e stipendi sempre più livellati su quelli orientali. In conclusione questa è la trappola della povertà, il fantasma della povertà che ritorna: in Occidente la gente ha salari che assomigliano sempre di più a quelli orientali, e costi che restano occidentali.
Il cittadino europeo vuole continuare a dare ai propri figli un certo tipo di educazione scolastica, vuole un’assistenza sanitaria adeguata, vuole accedere all’edilizia abitativa a costi che sono tipici delle antiche strutture di privilegio europeo, tuttavia si trova a fare i conti con salari fortemente ridimensionati.
Pertanto l’importazione della povertà va individuata nel livellamento dei salari dovuto alla competizione. Per reagire l’Occidente non può certo mettere sul tavolo la forza delle braccia in quanto i Paesi che lo compongono non sono “Body Nations” e non sono in grado di competere con la forza delle braccia e con la vitalità fisica delle masse dei popoli dell’Oriente, e fra breve neppure con quelle dell’Africa e del Sud-America.
Dobbiamo invece reagire ragionando in termini di capitale immateriale e questo significa puntare ad utilizzare al meglio il capitale rappresentato dalle strutture e dalla tecnologia d’avanguardia, quindi investire sul fattore culturale – che si pone come fondamentale nella competizione.
A mio avviso, comunque, più che i fattori tecnologici o culturali, assumono un ruolo fondamentale nella competizione i fattori “politici”, considerato che uno Stato può competere efficacemente sul piano internazionale solo sulla base di alcuni essenziali fattori politici, sostanzialmente identificabili nella stabilità ed affidabilità del suo sistema politico, giuridico e fiscale.
Si tratta della versione moderna degli antichi Quaderni di Doglianza con cui si chiudevano le riunioni del Terzo Stato prima della Rivoluzione, nei quali si ripeteva sempre la medesima richiesta: un Re, una Legge, un Ruolo d’imposta. Un Re perché occorreva un’Autorità per poter svolgere i traffici ed i commerci; una Legge per svincolarsi dai variopinti vincoli retaggio dell’antico mondo feudale; un Ruolo d’imposta per liberarsi da un sistema fiscale corrotto e segmentato per ceppi e balzelli.
Riguardo ai citati fattori politici di stabilità la struttura italiana non mi sembra ancora competitiva e temo che il nostro Paese possa perdere drammaticamente competitività, come purtroppo è già avvenuto per alcuni settori economici di grande importanza, quali la chimica e l’elettronica.
In questo decennio non mi pare che il sistema politico italiano si sia rafforzato, anzi sembra perdere quota e credo che il trend sia verso un progressivo declino, come dimostra fra l’altro l’assenteismo elettorale che se all’estero può considerarsi mandato tacito, da noi evidenzia un atteggiamento politico preoccupante. Si tratta, a mio parere, di una sorta di secessione dal voto, nel senso di un diffuso distacco da un sistema politico che non si avverte più come rappresentativo del comune sentire. Al riguardo ritengo che in questi ultimi 10 anni il sistema politico italiano abbia visto diminuire sensibilmente la propria capacità di rappresentanza.
Le stesse considerazioni valgono per il sistema giuridico che si presenta in declino, anche se non si tiene conto dei fenomeni di quello che io chiamo il “folklore giudiziario”. In proposito basta dare un’occhiata alla Gazzetta Ufficiale e rendersi conto di quanti “metri quadrati” di nuova legislazione vengano prodotti ogni mese. Il metro quadro diventa così paradossalmente l’unità di misura della certezza del diritto ed il cittadino, alla stregua di un Renzo Tramaglino di manzoniana memoria, si trova “spiazzato” sul piano dei propri diritti/doveri, con tutto quello che ne deriva in termini di sistematica, involontaria, violazione della legge. Ovviamente ci sono anche coloro che violano volontariamente la legge, tuttavia talvolta ciò avviene, nell’ambito di un generale “spiazzamento” civile e democratico, per non subire quello che può apparire come ricatto delle burocrazie. Al riguardo è straordinario un passaggio del processo di Kafka quando il protagonista/vittima chiede: “Ma in base a quale legge mi state incriminando?” Un poliziotto rivolgendosi ad un collega commenta: “Vedi non sa neanche di che legge stiamo parlando, come fa a dirsi innocente, se non conosce la legge per la quale lo stiamo accusando?”.
L’eccesso di legislazione è un paradosso giuridico, ma si tratta di un fenomeno che può spiazzare l’Italia sul piano della competizione. La penalizzazione a carico dell’economia italiana potrebbe evidenziarsi, ad esempio, quando una multinazionale dovesse scegliere dove investire e pertanto preparasse un menu di ipotesi di Paesi da mettere in gara fra di loro. A questo punto i manager o gli avvocati di ciascun Paese cercherebbero di vendere la propria merce, attirando la multinazionale nei rispettivi Paesi.
In un caso del genere per l’Italia risulterebbe fortemente penalizzante il fattore giuridico, in quanto l’incertezza del diritto è un elemento a volte fondamentale per le scelte operative. Infatti non è sufficiente illustrare agli operatori internazionali le “agevolazioni straordinarie” di cui godrebbero in Italia quando, poi, è difficile spiegargli come sono articolate, se c’è un organismo che le certifica e, soprattutto, quanto tempo è necessario per accedere alle stesse.
Il fattore giuridico è un fattore di competitività straordinario e poiché certamente non si attraggono investimenti offrendo anarchia è evidente quanto sia importante per un Paese poter disporre di un ordinamento giuridico ben articolato. Una delle frasi più ciniche diffuse nel mondo, da cui traspare con chiarezza quanto sia penalizzata la scelta dell’Italia come luogo in cui fare investimenti, è la seguente: “Fare il consigliere di amministrazione di una società italiana è più pericoloso che fare il pilota di Formula 1”.
Per quanto concerne il fattore fiscale non è certo necessario presentarsi sul mercato come “Paradiso fiscale”, è tuttavia opportuno evitare di configurarsi come “Inferno fiscale” o, comunque, come sistema fiscale casuale, erratico e quindi pericoloso. L’Italia è l’unico ordinamento in cui un manager rischia seriamente il proprio patrimonio personale in caso di sanzione fiscale comminata alla società amministrata. Se la società viene considerata come passibile di sanzioni, infatti, queste non si fermano allo schermo della persona giuridica che identifica la società, ma si estendono alla persona fisica presumibilmente responsabile.
In proposito, se è giusto che il responsabile di un’azienda sia sanzionato sul piano penale, d’altra parte sembra meno razionale che egli venga sanzionato anche sul piano amministrativo. Inoltre, senza pretendere di essere un giurista, penso che le sanzioni di tipo penale o parapenale debbano avere una qualche relazione con la capacità personale dell’individuo, nel caso specifico con la sua capacità di pagare; ad esempio se la Giustizia chiedesse 300 miliardi ad un Direttore amministrativo, ben difficilmente questi troverebbe la somma richiesta, anche se dovesse dar fondo a tutti i suoi risparmi.
La questione può apparire come un dettaglio tecnico ma, a mia opinione, si tratta di una delle norme che inducono alla fuga molti possibili investitori anche perché si trova sempre, in sede di trattativa a livello internazionale, qualcuno che, evidenziando questa situazione, cerca di metterti fuori gioco. Eliminare disposizioni legislative di questo tipo costituisce una riforma a costo zero ed a rendimento altissimo sul piano della competizione.
Sempre in materia impositiva e fiscale un altro elemento, a mio parere, fortemente irrazionale è la struttura della imposta regionale chiamata Irap, da poco introdotta in Italia. Tale imposta, che non ha eguali in Europa, colpisce non solo il reddito ma anche il costo del lavoro ed il costo del denaro. Ciò significa che questa è l’imposta ideale per chi ha molto reddito, pochi operai e molto patrimonio e quindi poco debito, mentre la stessa va malissimo per chi ha poco utile, ma molti operai e molto debito.
Un’imposta di questo tipo induce a fare investimenti in macchine “ruba-lavoro”, perché risulta senz’altro più conveniente investire in un robot che non paghi l’Irap piuttosto che assumere un operaio che la paghi.
In definitiva credo che la causa della scarsa competitività che caratterizza il nostro ordinamento fiscale sia da ricercarsi non tanto in un debito pubblico che ci costringe a pagare molte tasse per riparare gli errori del passato, quanto nelle molte irrazionalità che tale sistema impositivo contiene e che sarebbero eliminabili a costo zero, senza effetti particolarmente negativi sul bilancio.
Ho pertanto l’impressione che l’Italia sia progressivamente spiazzata nella competizione, oltre che per l’assenza di collegamenti e di infrastrutture moderne, soprattutto perché appare come un Paese in declino sul piano politico, legale e fiscale. Non escludo che sia possibile uscire da questa spirale negativa, tuttavia ho l’impressione che questa “catena culturale” porti verso il declino del Paese ed ho anche l’impressione che, uscendo fuori dall’Italia, queste considerazioni possano riflettere il declino di tutto il Vecchio Continente.
L’Europa è infatti un’area dove il capitale finanziario costa poco ed il capitale umano costa tanto, dove il capitale non è regolamentato, ed è pertanto libero di circolare nel mondo, mentre il lavoro è fortemente regolamentato. Si pensi in proposito alla formula dei contratti collettivi nazionali di lavoro che personalmente considero come il residuato di un’epoca forse superata dalla storia.
Un’area configurata in questo modo è destinata a divenire un’area dove il capitale lavorativo umano perderà progressivamente terreno e dove il capitale finanziario, che come detto costa poco, sarà sempre di più utilizzato per investire in macchine “ruba-lavoro” o per investire all’estero.
Per quanto concerne l’Italia un altro fattore di crisi, non transitorio e non congiunturale bensì fondamentale, è costituito dal declino dei saggi di interesse, che ci ha portato a raggiungere la fatidica soglia del 3% con tasse più alte e tassi più bassi.
La diminuzione dei saggi di interesse rappresenta un fattore positivo per uno Stato che è debitore, soprattutto se si accompagna ad un aumento delle tasse; ma non è certamente altrettanto positivo per i produttori, per i consumatori e per i risparmiatori.
Nel caso dell’Italia poi i tassi di interesse bassi costituiscono un fattore che può modificare la struttura sociale ed economica del Paese, considerato che i cittadini italiani hanno sempre avuto un’altissima propensione al risparmio, direttamente proporzionale ad una diffusa sfiducia verso lo Stato. Una situazione completamente diversa da quella dell’America, ad esempio, dove non c’è propensione al risparmio e tutti comperano con la Carta di credito e dove i tassi bassi comportano sicuramente maggiori consumi.
In Italia i saggi d’interesse bassi contrastano con la funzione sociale che nel nostro Paese da sempre ha svolto il risparmio, e dove molti, quando potevano, risparmiavano anche sulle imposte. Per i lavoratori autonomi, ad esempio, l’evasione costituiva una sorta di pensione parallela, un welfare state parallelo, e se si escludono alcuni episodi patologici, su questa forma di risparmio si è indubbiamente costruita una struttura di capitale con una elevatissima funzione sociale.
Attualmente, con i saggi di interesse al 3%, ed ancora più bassi se si considerano al netto da commissione bancaria, e con un’inflazione che ufficialmente è all’1,6/1,7 ma a mio parere molto più alta, la remunerazione del risparmio è pari allo zero.
Posto quanto sopra, mi sembra di aver dimostrato che il 3% è un livello di remunerazione illusorio e che sostanzialmente il risparmio non conviene, con tutto ciò che questo comporta in termini di modifica dei progetti di vita e di conseguente crollo della domanda, tanto che personalmente sono convinto che la recessione o la deflazione italiana, o meglio il differenziale italiano di crisi economica rispetto al resto dell’Europa, si spieghino in questi termini. Ovviamente la soluzione non è nell’aumentare il costo del denaro, non è nell’aumentare le regole sul denaro, non è – per la verità questo è uno dei miti – nell’aumentare le regole che governano la circolazione del capitale.
Il Presidente D’Alema ha scritto un saggio sulla tassazione dell’attività finanziaria, pubblicato su una rivista a circolazione limitata, dove teorizza – è un antico mito – l’esigenza di tassare la ricchezza finanziaria internazionale. Ritengo che tale formula sia molto difficile da realizzare non solo a livello tecnico, ma anche sul piano economico perché la ricchezza finanziaria non vale in quanto circola, ma circola in quanto vale e se viene bloccata perde automaticamente di valore.
La soluzione non è nell’aumentare le regole sul capitale, non è nel tassare di più i movimenti internazionali di ricchezza, in quanto ciò risulterebbe difficile se non tecnicamente impossibile, per lo meno sino al momento in cui sorgeranno gli Organismi sovranazionali con una funzione politica. Il vecchio Stato-Nazione cede quote di potere verso l’alto e verso il basso. Verso l’alto cede potere progressivamente agli Organismi sovranazionali – detti alla maniera inglese “high QUANGO” ossia “Quasi-Autonomous Non-Governmental Organizations” – come l’ONU, Green Peace, la Banca Mondiale, la Croce Rossa. Il nostro punto di riferimento in Europa è l’Unione Europea. Questi Organismi, che hanno una funzione ed una logica sovranazionale, hanno anche un fabbisogno finanziario e si legittimeranno politicamente quando faranno attività politica e riscuoteranno imposte.
Fino ad allora la soluzione non è nel tassare i capitali, bloccandoli, ma è più probabilmente nel ridurre le regole e le tasse sul lavoro, uscendo dagli schemi mentali consolidati. In materia di contrattazione del lavoro, ad esempio, certamente è ragionevole pensare che, siccome pacta sunt servanda, i contratti di lavoro in essere e stipulati in base ai contratti collettivi vadano preservati, tuttavia trovo invece irrazionale che un giovane che si affaccia oggi al mondo del lavoro non possa stipulare liberamente il proprio contratto di lavoro.
A 18 anni si è liberi di sposarsi, si può scegliere la propria moglie e crearsi una famiglia, si può scegliere un progetto di vita, al contempo tuttavia non si può fare un proprio contratto di lavoro ma si è obbligati ad utilizzare un determinato modello. Sembra però che il solo pensare ad un nuovo tipo di contrattazione del lavoro libera da vincoli (i nuovi contratti od i contratti nuovi) costituisca un passaggio rivoluzionario.
La soluzione per uscire da questo momento di crisi è praticamente questa: se l’Europa in generale e l’Italia in particolare vogliono recuperare in competizione non possono far salire il costo del denaro, forse possono far scendere, se non le tasse, le aliquote delle tasse, ma questo è un solo aspetto del problema: io sono convinto che riducendo le aliquote i gettiti si conservano.
Quello che può rimettere in pista un Paese come l’Italia è, soprattutto, una vera e propria rivoluzione giuridica che possa condurre il Paese verso una maggiore certezza del diritto ed una completa liberalizzazione dei contratti di lavoro, per ottenere, in questo settore, un mercato più elastico e capace di adeguarsi a nuove esigenze.
–> Consigli di lettura: La guerra “civile”, di Giulio Tremonti
(*) Il testo è tratto dalla Conferenza tenuta il 31/03/1999 presso il SISDe dall’On.le Prof. Giulio TREMONTI, Avvocato e Professore Ordinario di Diritto Tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia.
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