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Emanuele Severino
26 febbraio 1929 – 17 gennaio 2020
È vero che chi è stato non può più non essere stato, o se ascoltiamo un’antica voce che echeggia dalla preclassicità “L’essere non può non essere”.
È il grande filosofo Emanuele Severino che ha riproposto al pensiero contemporaneo il segreto tra due piani di senso, il tempo e l’eterno.
Il tempo e il divenire sono un errore della mente, un suo limite, un’illusione. Tutto il Reale è un Eterno composto da entità e stati di esistenza eterni che compaiono e scompaiono al nostro debole vedere. “Ed è impossibile che così non sia”.
Del resto tutti noi “sappiamo” che ciò che chiamiamo reale non è tutto e che non è solo una nostra segreta ambizione ma è un sussurro dell’anima il fatto di concepire la vita come un frammento dell’eterno.
Severino non ha costruito solo una episteme, un edificio logico concettuale che si regge da sé, ma ha parlato sempre di contingenza, soprattutto sul senso del capitalismo, dell’egemonia della tecnica, della fine della democrazia, della politica…
Paradossalmente è il filosofo dell’immanenza, il più grande filosofo del Secondo Novecento, il dialogante con il pensiero con Heidegger e con la Chiesa cattolica, con cui è stato lungamente in polemica, dove il principio del suo discorso è la logica più stringente.
Alla fine degli anni Ottanta gli ho chiesto di curare una rubrica nel periodico che dirigevo, è da allora che mi riservo l’onore intellettuale di esserne allievo, una considerazione che naturalmente è detta per sempre cioè nel modo più delicato di nominare una dedizione immortale.
Ha infine accettato di far parte del comitato accademico dello IASSP.
Di seguito pubblico due Suoi scritti, il primo di circa trent’anni fa della rubrica menzionata e il secondo del 1999 estratto dal libro che ho curato “Etica e ambiente”.
Ivan Rizzi
La morte e la grazia
Emanuele Severino
“Sentire… il fascino della bellezza caduca… riconoscere il pregio che l’idea della morte conferisce alla grazia delle cose terrene”. Questa è, per il d’Annunzio de Le vergini delle rocce (Libro primo), la “somma saggezza” che gli è stata insegnata da Socrate. La “grazia” è ciò che rende gradite le cose. Appunto per questo si dice che è “grazia” il bene concesso agli uomini da Dio. Le “cose terrene” sono “caduche”. Cioè cadono. La morte è il loro cadere.
Ma dove cadono? La morte mostra volti profondamente diversi a seconda del luogo in cui le cose cadono morendo. E infatti gli uomini non hanno sempre pensato allo stesso luogo. Si è creduto che le cose mortali, cadendo, si rialzino in una regione diversa, più o meno lontana dalla terra, dalla quale però possono ritornare, minacciose o benigne. E si attendono con trepidazione quelle che sono state fonte di gioia. Ma quando l’attesa è troppo delusa si incomincia a pensare che le cose non ritornano più. Le trattengono altrove barriere e recinti invalicabili? Ma prima o poi ogni recinto e barriera può essere forzato e attraversato. Che cosa, dunque, le trattiene altrove?
La risposta che i Greci danno a questa domanda guida l’intera civiltà occidentale: le cose, morendo, non cadono in un luogo, ma nell’assenza di ogni luogo, nel puro vuoto, nel nulla. Il nulla in cui cadono le cose caduche è il recinto, la barriera invalicabile che impedisce il loro ritorno. Non ritornano, perché sono diventate niente.
Quando il pensiero greco solleva lo sguardo sul niente, porta alla luce un volto, un’idea della morte estremamente più angosciosa di ogni volto che essa ha mostrato nell’esperienza dell’uomo. È questo il senso che “l’idea della morte” possiede nella frase che abbiamo riportato all’inizio. (E come potrebbe un poeta scostarsi dal pensiero che domina l’Occidente?) Una frase in cui – a parte la convinzione di d’Annunzio, arbitraria, ma non completamente immotivata – parla un’esperienza comune e diffusa nella nostra civiltà (anche se quasi sempre si ignora quanto sia profondo il sottosuolo di tale esperienza). Quando una giornata felice sta finendo – e sta per cadere nel nulla -, l’idea della sua morte conferisce un pregio, alla grazia delle ultime ore, che essa sarebbe ben lontana dal produrre se la giornata – e la vita -, cadendo, si rialzasse in altri luoghi, che proprio per il loro essere luoghi non escludono l’esistenza di una via percorrendo la quale ciò che se n’era andato possa ritornare.
L’idea che l’Occidente possiede della morte conferisce alle cose terrene un pregio che non avevano mai avuto: le rende estremamente più preziose di ogni grazia che gli uomini conoscevano prima che il pensiero greco volgesse lo sguardo sul nulla. Estremamente più angosciosa l’idea occidentale della morte; estremamente più preziosa e affascinante la grazia e la bellezza della Terra evocata dall’Occidente. La seduzione del serpente?
Ma solo se ci si angoscia della morte delle cose non è un offenderle pensare che l’idea della morte dia pregio alla loro grazia: senza quell’angoscia, tale pensiero non direbbe altro che questa crudezza: la grazia che possedete è aumentata dal fatto che prima o poi vi toglierete di mezzo. E questo lo si dice alle cose sgradite, temute, lo si dice al dolore e ad ogni ospite che come il pesce puzza dopo tre giorni. È per l’angoscia che le cose che stanno a cuore cadano nel nulla che si è disposti a fare di tutto e a dare tutto il resto per tenerle in vita.
D’Annunzio parla della “superba allegrezza” di uno “spirito” che poteva senza limiti gioire delle apparenze fugaci… e trovare il più amabile pregio della vita appunto nella rapidità delle sue metamorfosi – lo spirito che in queste pagine d’Annunzio riceve da Nietzsche all’attimo fuggente egli non avrebbe detto, come Goethe: “Fermati, sei bello!”, bensì: “Non fermarti, sei bello!”. Ma egli dice anche che quell’allegrezza si trova in lui unita al “sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare, del continuo perire”, che “allenta l’allegrezza” dell’iperuomo nella “malinconia”, dietro le cui spalle spunta l’angoscia.
Che si dovrà dire, allora, delle cose eterne? Esse non muoiono, e quindi alla loro grazia l’idea della morte non può conferir pregio. Vengono forse a noia proprio perché sono eterne? Ma ciò che tedia non è forse quella cosa caduca, che pur essendo caduca pretende di durare e piacere più di quanto le sue grazie non le consentano? Ciò che tedia non è forse il caduco che indossa la maschera dell’eterno? Ed è proprio vero quello o che pensa la cultura occidentale, che sotto quella maschera non ci sia nulla o che dell’eterno ci sia solo la maschera?
- Emanuele Severino nella sede attuale dello IASSP con Sergio Ricossa, Piergiorgio Odifreddi, Ivan Rizzi e Giulio Giorello.
Etica e ambiente. Una nuova etica per la salvaguardia dell’umanità
Emanuele Severino
Ho ascoltato con molto interesse quanto è stato detto finora. E ho trovato degli elementi che devono essere tenuti fermi, cioè che lo stato del pianeta sia decifrato in base a criteri scientifici e non in base a impressioni, e che – secondo la giusta rivendicazione espressa dal professor Sergio Ricossa – la critica oggi rivolta alla tecnica sia motivata e non dia luogo ad allarmismi pericolosi. Tenendo ferme queste due istanze vorrei sviluppare qualche considerazione che avrà soprattutto il carattere di un modello.
Abbiamo sentito descrizioni molto interessanti, ma vorrei proporre, invece di un insieme di descrizioni (che peraltro non erano isolate da una comprensione concettuale) un modello – con tutti i limiti dei modelli -; un modello ‘logico’. Avvertendo però che quando si parla della ‘logica’ come di un che di astratto, la si commisura alla configurazione che la realtà ha, e che questa configurazione della realtà, una volta che sia conosciuta, è a sua volta una configurazione logica, è una logica; sicché quando si parla contro la logica si parla contro la ‘cattiva’ logica, sostenendo la ‘buona’ logica della realtà. Indico un modello; ma non vorrei limitarmi alla cattiva logica astratta.
Le cose non sono così pacifiche per quanto riguarda il danno che l’attuale produzione capitalista procurerebbe al pianeta. Sia sul versante dei fisici sia su quello degli economisti non c’è un atteggiamento omogeneo.
Illustri fisici si strappano i capelli, e anche illustri economisti. Mi viene in mente W. Leontiev, che non è affatto insensibile al problema ecologico. Certo, l’economia ‘ufficiale’ considera il problema economico come separato dal problema ecologico. Si può fare e, penso, molti dicono che si debba fare della buona scienza economica senza fare intervenire le istanze ecologiche. M. Friedman, tra l’altro consigliere economico di Reagan, diceva che erano più inquinanti le feci dei cavalli che non gli scarichi della circolazione automobilistica. Non c’è omogeneità di giudizio.
Il nostro dibattito riguarda il rapporto tra ‘etica e ambiente’.
L’etica è una delle principali fonti della critica rivolta all’attuale produzione capitalistica; cioè vengono dall’etica le principali forme di critica ai fattori che danneggiano l’ambiente. Ciò che oggi danneggia l’ambiente è la produzione capitalistica – tenendo fermo che la produzione dei Paesi dell’Est era ancora più dannosa che non l’attuale produzione capitalistica.
Le critiche vengono dunque da parte dell’etica. Ricordo che proprio in un precedente dibattito, in questa stessa sede, osservassi che non esiste l’etica, ma esistono le etiche, che sono tra di loro conflittuali; e le etiche, per esempio l’etica cattolica o quella laica, intendono spingere la produzione economica verso una forma per la quale essa sia meno dannosa per l’umanità e per la base naturale dell’umanità, la terra.
Questo sentiamo anche nei discorsi delle etiche più istituzionalmente organizzate.
Per esempio l’etica cattolica rivolge al capitalismo, relativamente al problema ecologico, un rilievo analogo a quello che essa rivolge al capitalismo quando lo esorta ad agire per il bene comune. Possiamo allargare quest’ultimo concetto dicendo che appartiene al bene comune anche la salvaguardia della terra e la salute umana. Ecco dunque una forza etica che cerca di smuovere l’orientamento di fondo del capitalismo per indirizzarlo in un ‘altra direzione.
L’etica si fonda sulla virtù; e dimentichiamo troppo spesso che «virtù» significa alle origini «forza», «potenza». Oggi l’etica vincente è l’etica forte, l’etica che ha più potenza. Virtus vuol dire potenza. Basterebbe forse questa osservazione per consentire di chiederci quale possa essere oggi l’etica che ha la potenza di modificare il mondo, e nella fattispecie la potenza di far sì che questo ciclope, il capitalismo, modifichi la propria direzione, si sposti verso un’area meno dannosa per l’uomo. Prepariamoci a sentire parlare un’etica che sia la virtù più forte.
È chiaro, inoltre, che quando l’etica dice al capitalismo di non essere dannoso, di pensare al bene comune (dove il bene comune include anche il non inquinamento), l’etica pretende dal capitalismo uno stravolgimento radicale: pretende che il capitalismo non sia più quello che esso è. Certo, anche dal punto di vista dell’etica il capitalismo è considerato come lo strumento oggi più potente a disposizione dell’uomo. Lo riconosce anche la Chiesa cattolica quando dichiara che l’economia pianificata non era in grado di produrre ricchezza adeguata, laddove il capitalismo è il più valido strumento di produzione della ricchezza. Nel Centesimus annus si dice appunto che lo strumento più adeguato di produzione di ricchezza è la produzione capitalistica.
Il capitalismo è lo strumento più potente nelle mani delle varie etiche; delle varie forme che vorrebbero dargli un volto umano.
In questa situazione è inevitabile che lo strumento insostituibile, cioè lo strumento capitalistico, proprio in quanto insostituibile deponga il proprio carattere di mezzo che serve alla promozione degli scopi sostenuti dalle varie forme di etica e assuma invece il carattere di scopo fondamentale delle varie forme di etica.
Se ci serviamo di uno strumento per realizzare i nostri scopi e se crediamo che questo strumento sia insostituibile, è fatale che invece di realizzare i nostri scopi ci si proponga innanzi tutto di rafforzare lo strumento di cui intendiamo servirci.
Da questo punto di vista, le forze etiche che premono sulla produzione capitalistica per farle cambiare orientamento, sono destinate al fallimento. Al capitalista l’etica diceva: «Non devi sfruttare l’operaio», ma il capitalismo non ha mai dato ascolto alla voce etica. A un certo momento l’operaio non è più stato così intensamente sfruttato perché con la produzione mediante macchine si è visto che il profitto cresceva e nello stesso tempo, come sottoprodotto di questo scopo primario, si produceva un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dell’operaio.
Non è stata l’etica a fare acquistare un volto umano al capitalismo: è stato l’inevitabile interesse del capitalismo a darsi questo volto umano, come sottoprodotto dello scopo primario che il capitalismo si proponeva, e cioè l’incremento del profitto.
Vengo al centro delle mie considerazioni.
È incerta la diagnosi sul carattere dannoso del capitalismo; però è fuori discussione che va diffondendosi la convinzione che questa produzione sia dannosa. Non sono più i tempi della presidenza Bush quando una decina di anni fa, durante la conferenza di Rio de Janeiro in Brasile l’atteggiamento degli Stati Uniti fu (a parte il boicottaggio della conferenza stessa) di sostenere la piena compatibilità tra la forma attuale della produzione industriale e l’ecologia. Molto diverso l’atteggiamento dell’amministrazione Clinton, che propone un distinguo nell’ambito del sistema produttivo: solo la produzione capitalistica ben organizzata (cioè quella non inquinante) è perfettamente compatibile con le istanze ecologiche.
Nella società si sta diffondendo dunque la convinzione, più o meno suffragata dal punto di vista scientifico, che la forma attuale della produzione capitalistica non sia ben organizzata e, in conseguenza, sia dannosa per l’ambiente.
Questa convinzione, può anche essere sbagliata, ma è un fatto reale. In quanto tale condiziona il reale, e lo condizionerebbe anche se si rivelasse utopica, allarmistica o apocalittica. Non molto tempo fa, Clinton ha dichiarato di voler prendere in considerazione il problema dell’inquinamento dell’ambiente.
Quella convinzione va di fatto diffondendosi.
Il pazzo (posto che tale convinzione sia una pazzia) è uno che non vede la realtà, ma se si diffonde la pazzia, la diffusione della pazzia è un coefficiente della realtà, un coefficiente reale di cui si deve tener conto.
All’interno dello stesso mondo capitalistico va prendendo piede la convinzione che così come è attualmente strutturata, la produzione capitalistica sia dannosa e da ultimo porti dunque alla devastazione della terra (cioè della base naturale dell’uomo), e anche dello strumento tecnologico di cui il capitalismo si serve, e quindi alla distruzione del capitalismo stesso. Va prendendo piede una situazione in cui la critica forte alla produzione capitalistica non viene dal punto di vista dell’etica che va invece via via rivelandosi impotente di fronte alla resistenza di questo tipo dominante di produzione economica: l’autentico nemico, l’autentica critica che va prendendo piede rispetto al mondo capitalistico è costituita da questo stesso mondo. li capitalismo come nemico primario di se stesso nella misura in cui l’ambiente sociale che esso domina va progressivamente convincendosi che in qualche modo le cose debbano cambiare, perché andando avanti così si arriva alla catastrofe.
Credo anch’io che il Club di Roma abbia esagerato. È vero che il Rapporto del Club di Roma non teneva conto di molte variabili, per esempio delle energie non inquinanti. Però questi limiti non cancellano il problema del consumo delle risorse, dell’eccessivo incremento della popolazione e dell’inquinamento.
Ecco dunque il centro del modello che mi proponevo di indicare. Se si diffonde la convinzione che la produzione capitalistica sia dannosa, o tale produzione è realmente dannosa, oppure la convinzione (magari arbitraria) che sia dannosa produce modifiche reali nel comportamento sociale.
Se si diffonde questa convinzione, il capitalismo è destinato a cambiare orientamento, a non proporsi più come scopo ciò per cui il capitalismo è capitalismo.
Continuo a credere che il capitalismo sia tale in quanto è perseguimento di un profitto.
Non credo che il marginalismo economico intenda dire che il ciclo economico si conclude col consumo, e cioè che lo scopo del ciclo economico sia il consumo, perché non credo che il capitalista fabbrichi i vestiti per vestire gli ignudi e fabbrichi cibi per dare da mangiare agli affamati. Ma se lo scopo del capitalismo è l’incremento del profitto, se ci sono forze che premono perché il capitalismo cambi direzione, cioè tenga sempre più conto della salvaguardia della terra, e se la convinzione del carattere dannoso della produzione capitalistica va prendendo piede all’interno stesso del mondo capitalistico, allora c’è un insieme di forze, con in testa il capitalismo stesso, che mira a far sì che lo scopo di questo mostro di potenza venga a ruotare e a essere sostituito da un altro scopo, che è la salvaguardia della base naturale della produzione economica.
Allora, ecco il dilemma: o il capitalismo perviene realmente alla distruzione della propria base naturale, oppure il mondo capitalistico, che attualmente domina il pianeta, si convince che lo scopo della produzione di ricchezza deve essere innanzi tutto la salvaguardia della terra. In entrambi i casi cambia lo scopo dell’azione capitalistica.
Non si tiene adeguatamente conto, nemmeno in campo economico, del gioco mezzo-scopo, per il quale se si fa cambiare a un’azione lo scopo, quell’azione non è più quella che essa era.
Quando la Chiesa chiede al capitalista di badare al bene comune, gli chiede di distruggere il capitalismo; così facendo, fa proprie le istanze della dottrina comunista. Chiedendo al capitalismo di badare al bene comune, la Chiesa è distruttiva quanto l’azione rivoluzionaria del marxismo e del socialismo reale.
Dunque o si cambia lo scopo, perché si è convinti, ali ‘interno del mondo capitalistico, che la produzione attuale della ricchezza è dannosa; o lo si cambia perché si assume come scopo la salvaguardia della terra.
È ovvio che a questo punto intervengano molte variabili. Per esempio, le energie non inquinanti. Per quanto riguarda queste energie, si potrebbe obiettare che il modello qui proposto non tiene conto della circostanza che la produzione capitalistica può proseguire senza inquinare la terra.
Ma un capitalismo che vuol salvare la terra per salvare se stesso è identico a un capitalismo che vuol salvare la terra per salvare la terra?
Il capitalismo può manovrare forme di energia non inquinanti, ma in questa situazione una produzione di ricchezza che abbia di mira la salvaguardia della terra per salvare se stessa – salvare la terra per salvare il capitale – è cosa essenzialmente diversa dal salvare la terra per salvare la terra. Ma allora è inevitabile che una produzione di ricchezza che voglia salvaguardare la terra per salvaguardare se stessa finisca col dar luogo, daccapo, alla progressiva devastazione della terra.
In ogni caso si profila una situazione in cui o per forze estranee o per iniziativa del capitalismo stesso, si costringe il capitalismo ad assumere come scopo qualcosa di diverso da ciò che lo definisce. Nel primo caso le varie forme di etica vogliono una produzione umana; nel secondo caso in cui il capitalismo si convince della propria distruttività, assume come scopo la salvaguardia della terra. Nel terzo caso, cioè qualora si faccia appello alle forme non inquinanti di energia, lo scopo del capitalismo diventa la tecnica cioè l’efficienza e il progressivo potenziamento della tecnica, giacché in questo caso la tecnica diventa la condizione della salvaguardia della terra.
La virtù tecnica, la potenza tecnica è l’autentica virtù. È l’etica autentica che può far dirottare l’attuale movimento economico verso forme non distruttive della terra. Non le virtù della grande tradizione occidentale, non le virtù della religione, della morale, della filosofia, ma è la virtus, la potenza in cui la tecnica consiste, a poter operare questo dirottamento.
Un sottinteso di queste mie considerazioni è che non si equivochi come oggi spesso accade quando si tratta tecnica e capitalismo come un tutt’uno indiscernibile. C’è una differenza essenziale fra il capitalismo e la tecnica, che è lo strumento di cui l’intrapresa si serve. C’è una differenza essenziale, per lo meno determinata da questa circostanza: il capitalismo intende mantenere le condizioni di scarsità senza di cui non ci sarebbe vantaggio nell’intrapresa. Se tutti fossimo ricchi e se i beni di consumo fossero a disposizione come è a disposizione l’aria, non ci sarebbe alcun vantaggio di operare economicamente, di immettersi, o di imbarcarsi in un’intrapresa capitalistica. Il capitalismo mira al mantenimento della scarsità dei beni; la tecnologia mira alla ‘eliminazione’ della scarsità dei beni, mira a distruggere il più possibile tale scarsità.
Si produce quindi questa ulteriore complicazione: che il capitalismo si serve della tecnica per incrementare il profitto, ma allo stesso tempo deve rallentare l’aumento di virtù, cioè di potenza della tecnica, proprio perché l’aumento di tale potenza condurrebbe a quella situazione di non scarsità che determina la distruzione del vantaggio dell’intrapresa capitalistica. È la virtù, cioè l’etica tecnologica, quel la dal la quale possiamo aspettarci la rotazione della produzione economica verso uno scopo diverso da quello attuale.
A questo punto siamo sulla soglia del problema che ora diventa inevitabile: qual è il senso della virtù e della potenza? Che cosa ha consentito che l’etica della tradizione occidentale sia stata sostituita o stia per essere sostituita dall’etica e dalla virtù della tecnica?
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