26
Jun
La Megamacchina di Serge Latouche e Il sistema tecnico di Jacques Ellul: differenze e affinità sul tema della tecnica moderna (di prossima pubblicazione)
Prefazione di Diego Fusaro
Bisogna essere grati a Giuseppe Gagliano per aver riportato l’attenzione, con il suo saggio, su un tema decisivo della riflessione sociale e politica della nostra contemporaneità.
Il suo studio, infatti, ha per oggetto la categoria concettuale di megamacchina o, a voler essere più precisi, lo sviluppo che di quella nozione è stato prospettato dalle indagini di Jacques Ellul e Serge Latouche. Lo studio di Gagliano si colloca al crocevia tra storia delle idee e filosofia politica.
Per un verso, infatti, ricostruisce con acribia filologica l’elaborazione concettuale dei due autori, le diverse maniere in cui essi hanno inquadrato, pensato e risolto la questione della megamacchina. Per un altro verso, Gagliano si avventura al di là dei due studiosi, nell’atto stesso con cui ne perlustra ed espone le tesi: e prova a portare all’altezza dei tempi le loro riflessioni, ponendole in connessioni con i dilemmi dell’odierna civiltà tecnocapitalistica.
Mi pare colga un punto dirimente Gagliano, allorché mostra come Latouche trascuri l’importanza di una differenza, che invece è adombrata da Ellul e che forse può essa soltanto costituire il fondamento di una rivolta contro la potenza sempre potenziantesi della megamacchina tecnocapitalistica.
Tale differenza riguarda la non sovrapponibilità tra il “sistema tecnico”, da una parte, e la società complessivamente intesa, dall’altra. Vero è che, nel suo movimento generale, la megamacchina procede inglobando, colonizzando e saturando gli spazi della società: a tal punto che, senza esagerazioni e senza fuorviamenti, si potrebbe con diritto asserire che la megamacchina tecnocapitalistica tanto più si potenzia, quanto più riesce a sussumere la società.
Ne abbiamo, oltretutto, la prova provante nell’odierna figura della società integralmente tecnicizzata, dove l’intero mondo della vita è stato colonizzato e ridefinito dalle logiche sistemiche dell’apparato produttivo tecnico: la società dell’internet, ad esempio, che altro è se non il non plus ultra di questa dinamica di assalto della megamacchina ai danni dell’intera società? Nulla resta esterno, tutto è sussunto: a tal punto che il confine tra esterno e interno e, dunque, tra megamacchina e società, tende a farsi labile ed evanescente, fino a sparire.
Se l’analisi di questa differenza può annoverarsi tra i meriti di Ellul, la sua soluzione dei dilemmi della megamacchina sembra difficilmente percorribile e, insieme, scarsamente auspicabile. In ciò, risulta maggiormente convincente l’analisi di Latouche, il quale – scrive Gagliano – non condivide “l’idea paradossale dell’autore del Sistema tecnico secondo cui il modo per evitare le irrazionalità causate dalla discrasia tra il sistema tecnico e la società sarebbe la tecnicizzazione totale di questa, cioè la fusione totale tra la Megamacchina e la società che porterebbe inevitabilmente al totalitarismo tecnico”.
Quella che a Ellul pare la soluzione è, in verità, il problema stesso: con la conseguenza del tutto paradossale per cui, per porre rimedio al dramma della megamacchina, non v’è altra soluzione se non rinsaldarlo all’ennesima potenza, secondo la figura di una vera e propria distopia tecnica del controllo totale.
Tale distopia, in realtà, coincide largamente con la “verità effettuale” del nostro presente integralmente tecnicizzato, che sempre più appare, in effetti, come un totalitarismo glamour dei consumi e della “amministrazione totale”, per richiamare una categoria cara ad Adorno e a Horkheimer.
Per Ellul, come per Latouche, l’uomo diventa tanto più servo della tecnica, quanto più si illude di servirsene e di piegarla ai propri scopi. Come efficacemente sottolineato da Gagliano, “l’uomo che utilizza il mezzo diviene il mezzo della Tecnica perdendo la sua ontologicità di fine a sé”. È ora la megamacchina a disporre dell’essente nella sua totalità, avvalendosi anche del suo creatore come di un mezzo tra i mezzi.
La cultura, per parte sua, è marginalizzata e dominata dalla tecnica: che la ridefinisce come un sapere tecnoscientifico, centrato sui cardini dello know how e dell’utile, del calcolo e della prestazione. Sotto questo profilo, apparirebbe ingenua e parziale la lettura di quanti sostenessero che la civiltà fintamente tollerante del tecnocapitalismo distrugge i saperi e alimenta l’ignoranza. Semplicemente, genera e favorisce un sapere coerente con l’apparato tecnico, un sapere, cioè che assecondi l’ordine della produzione e ad esso sia organico.
Gagliano insiste, e a ragion veduta, sull’ingenuità di Marx nel modo di concepire la tecnica: figlio del suo tempo e, per di più, animato da esiziali cedimenti alla fascinazione positivistica, il Moro riteneva che la tecnica fosse neutrale e che, in ultimo, tutto dipendesse dal suo uso (buono, se proletario, e malvagio, se capitalistico, giusto per semplificare). Si tratta – è evidente – di ingenuità a cui, dopo Ellul e Latouche, ma anche dopo Heidegger e Adorno, nessuno è più disposto a credere.
Eppure v’è, racchiuso nell’approccio analitico di Marx, un elemento fecondo, che chiede, a mio giudizio, di essere recuperato e valorizzato. Non lo si rinviene, invece, nelle analisi di Ellul e di Latouche, che in ciò rivelano un grave limite. Tale elemento coincide con la questione del conflitto di classe in riferimento al tecnocapitalismo.
Pensare, con Marx, che la tecnica sia neutra e di per sé avulsa dal dominio, è ingenuo e già lo si è adombrato. Ma egualmente ingenuo mi pare considerarla come un apparato automomo, svincolato dal rapporto asimmetrico di classe che innerva il piano immanente della società. Non è, forse, vero che tra la tecnica e il dominio esercitato dal polo egemonico dell’élite cosmopolitica degli apolidi della finanza si dà oggi un robustissimo nesso di coimplicazione? Non è forse vero, ancora, che il dominio di classe capitalistico si dà per il tramite della tecnica e in essa trova la sua coerente espressione? Si tratta, a mio giudizio, di fecondi spunti di analisi, che permettono di arricchire le analisi di Latouche e di Ellul, andando a colmare punti teorici che restano, per così dire, “scoperti” dal loro pur prezioso lavoro teorico.
Un ultimo plesso teorico su cui desidero soffermare l’attenzione, pur brevemente e per cenni, riguarda un autore che da Gagliano è a più riprese citato e che, non di meno, resta ai margini della sua analisi. Preciso subito che la mia non è un’accusa, ma una proposta di integrazione rispetto a un lavoro che è in sé compiuto, ma che si presta, com’è evidente, a continui confronti. L’autore in questione è Martin Heidegger.
Questi, con un lessico e con un impianto profondamente differenti rispetto a quelli – già tra loro eterogenei – di Ellul e Latouche, impiega, come è noto, l’espressione Gestell. Tale termine, che in parte coincide con la megamacchina di Ellul e Latouche, può essere tradotto in italiano sia con “impianto”, sia con “imposizione”, a sottolineare come l’essenza della tecnica risieda – anche per Heidegger – in un’anonima logica inesorabile di svuotamento di ogni progetto umanistico dotato di un senso e, insieme, di insensata crescita senza limiti della capacità di realizzare scopi.
In quanto “impianto impositivo”, das Gestell coincide, di conseguenza, con la quintessenza dello Stellen, del “porre”, dell’impiantare, dell’azionare. Esso si configura come la realizzazione dell’essenza della tecnica e, con essa, della metafisica occidentale come Seinsvergessenheit, come “oblio dell’essere”.
Con le parole di Heidegger, “ciò che pensiamo in tal modo come l’impianto (das Gestell) è l’essenza della tecnica (Wesen der Technik)” che, a sua volta, deve essere concepita come il compimento della metafisica come oblio dell’essere. Sicché, ancora con la sintassi heideggeriana, “l’essenza della metafisica si rivela come il luogo essenziale del nichilismo”: quest’ultimo corrisponde al compimento di quella situazione per cui dell’essere non ne è più nulla; situazione che trova la propria condizione nella metafisica come Seinsvergessenheit e come concezione dell’essente come puro “essere-presente”, Anwesenheit.
Come per Ellul e Latouche, anche per Heidegger la tecnica corrisponde all’epoca in cui l’essente nella sua totalità è pensato come disponibile, manipolabile e sfruttabile in vista di un obiettivo che è in sé intrinsecamente irrazionale e che coincide con l’illimitata volontà di potenza autopotenziantesi.
L’analisi di Heidegger è, anche sotto questo profilo, euristicamente feconda, giacché permette di instaurare un proficuo dialogo con Ellul e Latouce. Heidegger evidenzia un paradosso: la civiltà della tecnica è quella in cui il soggettivismo e l’umanismo raggiungono il loro massimo sviluppo, a tal punto che l’essente nella sua interezza è concepito come prodotto, controllato e manipolato dal soggetto agente. Eppure questo processo, anziché realizzare l’essenza dell’uomo, la perverte, in quanto finisce per distruggere il mondo e, con esso, l’uomo sotto il segno del dilagare della tecnica scatenata.
Quest’ultima – ed è un altro plesso concettuale degno della massima attenzione – ha nell’illimitatezza il proprio fondamento ontologico. Anche Latouche vi insiste, soffermando l’attenzione precipuamente sulla declinazione economica dell’illimitatezza, ossia sul mito della crescita infinita. La tecnica può, così, concepirsi – per dirla con Severino – con l’illimitata produizione di fini, nel trionfo di un cattivo infinito che conduce nell’abisso l’uomo e l’intero ecosistema.
Si tratta di questioni che Gagliano affronta con spirito critico e, insieme, con grande aderenza ai testi degli autori studiati, nella piena consapevolezza della gravità della situazione e, insieme, della verità dei versi del poeta Hölderlin: wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch, “ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
Diego Fusaro
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