08
May
Fin dalla fine della cosiddetta “Prima Repubblica” italiana, nel 1994, il vero problema istituzionale da risolvere è stato quello del rapporto tra classe politica e magistratura. Strano che nessun sistema politico instabile, successivo a quello della “Prima Repubblica”, abbia studiato a fondo questo problema.
Si è passati dalle frasi fatte, “sono sereno”, “ho la massima fiducia nella Magistratura”, ed altro flatus vocis, alla creazione di narrazioni manipolate o distrazioni di massa, fino ancora alla considerazione secondo la quale “sono tutti uguali”, il massimo livello intellettuale, sul tema, raggiunto dalle classi politiche recenti.
Ma, se diminuisce il prestigio e il potere del parlamentare, aumenta la sua necessità di fondi per le campagne elettorali e il suo servilismo necessario a chi lo finanzia, visto che le vere élites si allontanano sempre di più dalle liste elettorali, temendo di infettarsi. O di rivelare i propri interessi.
Mi ricordo della madre di un mio amico, importante manager, che tentò di buttarlo fuori di casa, quando seppe che aveva accettato, anni fa, un posto in una lista elettorale.
Nel contempo, si sono verificati altri meccanismi di passaggio relativamente pacifico tra un sistema rappresentativo “maturo” e l’altro; e per la prima volta, tra una democrazia e l’altra, sempre in modo del tutto pacifico.
La defamation delle vecchie classi politiche o dei leaders è, ormai, un modulo prefissato e programmato per il regime change.
Senza dimenticare che le classi politiche corrotte sono porose, permettono ricatti internazionali potentissimi, sono passive e incapaci di trattare al meglio gli interessi nazionali. Per ridisegnare, senza troppe guerre e, soprattutto, senza guerre in Occidente, i nuovi confini post-guerra fredda, non c’è niente di meglio. Ed infatti si vada a costruire una ideale cartina dei regimi corrotti, tra Medio Oriente e Balcani-Asia Centrale, e si capirà come, con la corruzione delle classi politiche nazionali, si manipola, meglio che con una guerra, la situazione delle aree ancora contese tra due o più Imperi.
Basti pensare, in questo caso alla nostra tangentopoli, dal 1991 al 1995, quando sparì anche il Patto di Varsavia, guarda caso, al Lava Jato che portò alla condanna di Ignacio Lula da Silva in Brasile, operazione nata nel 2014, poi ricordiamo anche le vecchie azioni dei magistrati contro Mitterrand, al suo secondo mandato, che si bloccarono per la morte dello statista francese nel 1995, basate sulla pubblicazione del libro di Jean Montaldo, Mitterrand et le 40 voleurs, nel 2012, un testo sostenuto da François de Grassouvre, “segretario alle caccie presidenziali”, vero uomo al vertice della Sicurezza francese, che si ritrova morto nel 1994, in un apparente suicidio, nel suo ufficio dell’Eliseo.
Dal Direttorio a oggi, il vero sistema del potere post-monarchico è stato definito dal sistema di distribuzione dei fondi, da come e da chi viene controllato.
Non a caso, ce lo diceva Alberto Savinio, il termine tyrannos è quello che, anticamente, designava il “custode dei formaggi”.
Per non aggiungere anche Chirac, che avrà una immunità penale di tipo esteso, da Presidente della Repubblica Francese, per alcuni atti illeciti finanziari compiuti quando era sindaco di Parigi, atti per cui godrà di una immunità che scadrà nel 2007, un mese dopo la cessazione dalla carica presidenziale.
Insomma, a parte i casi periferici nel Terzo Mondo, che hanno altre logiche di funzionamento, il passaggio da un regime ad un altro, nella democrazia attuale, si effettua ormai tramite una pratica ben nota alla guerra psicologica: la defamation.
Naturalmente, qui non ci interessa se ci siano fatti concreti o meno, all’origine del procedimento giudiziario, né ci interessa, in alcun modo, la regolarità o la reale fondatezza. Qui ci interessiamo solo al dato eminentemente politico della questione.
In Italia, tangentopoli nasce, sul piano strategico, dalla forzata acquisizione di risorse da parte del PSI per dare l’ultima spallata sia alla Democrazia Cristiana, orba di Aldo Moro e ormai in crisi strutturale, e anche al PCI, il cui legame con l’URSS, pur ancora saldo, si rivela sempre più debole: i sovietici non hanno più i molti soldi da dare ai “compagni” italiani, e il PCI stesso si rivela, per inevitabile tendenza alla sopravvivenza, un partito sempre più legato alle socialdemocrazie nordiche. E agli americani, che quasi lo colonizzeranno, tra le prime associazioni legate all’”Ulivo” e l’”Asinello”, guarda caso il simbolo del Partito Democratico Nordamericano. Temporaneamente prima, per vedere come va e scegliere i leader, poi più stabilmente in seguito.
Il sistema berlusconiano sarà invece basato sui finanziamenti personali del fondatore, sui soldi di alcuni vecchi finanziatori dei partii di Centro, su una residua base di organizzazioni cattoliche, su qualche fondo estero, visto che nessun grande Paese, alleato o meno dell’Italia, gioca mai su un solo concorrente.
Quando però si scioglierà, il 3 febbraio 1991, il Partito Comunista sarà definito, da Federico Umberto d’Amato, il vecchio capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, “il più ricco partito politico del mondo occidentale”.
Certo, come (non) hanno acclarato le inchieste sulle “tangenti rosse”, il PCI partecipava in pieno alle reti delle spartizioni fondamentali tra i partiti detti democratici (i petroli, soprattutto, e il sistema universale delle tangenti ENI, che pagava i parlamentari, di tutti i gruppi, dopo un “seminario”, molto formativo, all’Hotel Regina di Roma) e a quelle legate alle imprese che lavoravano nell’Est, oltre al sostegno attivo che gli apparati coperti del Partito Comunista Italiano ricevevano per finanziare le campagne elettorali e le loro strutture di sicurezza interne.
I documenti scoperti, nel periodo, brevissimo, di apertura degli archivi del KGB a Mosca, durante la presidenza El’cin, sono interessanti anche per l’Italia, e non solo da questo punto di vista. Ma, naturalmente, tutto è morto all’alba.
Li ha scoperti e analizzati, in grande quantità, Vladimir Bukovsky, il fisico dissidente che come prigioniero politico fu scambiato con il dirigente cileno del Partito Comunista Luis Corvalán grazie a un accordo fra il regime cileno di Augusto Pinochet e l’URSS (residente in seguito in Gran Bretagna).
Ovvero, il rapporto tra classe politica e denaro è sempre essenziale, ben oltre le classiche categorie di quantità, oligarchia, democrazia, aristocrazia o monarchia, per definire il meccanismo di funzionamento di ogni sistema politico.
Come le classi politiche generano, riproducono e distribuiscono le loro risorse finanziarie è, indipendentemente da ogni giudizio morale, il vero criterio della loro differenza l’una dall’altra. Altro che i “pochi” e i “molti”, qui si tratta di studiare le democrazie come un sistema capitalistico, e viceversa.
Occorrerebbe riprendere in modo più analitico un vecchio classico della political science anglosassone, che spesso è meno empirista e ingenua di quanto non si creda. Mi ricordo, all’istituto universitario europeo, come Giovanni Sartori prendeva in giro questi calcoli da ragioniere, che lui, peraltro eseguiva da maestro.
Si tratta di Politics and Markets, di Charles Linblom. Un vecchio testo del 1980. Se, infatti, il voto elettorale è un “bene”, che ha un prezzo lecito, occorre stabilire l’uso e il costo in un regime di concorrenza quanto più possibile pura.
Per il liberale Lindblom basta, come per i Markets dei beni e dei servizi, eliminare, per l’esercizio del voto, le distorsioni dello scambio e i monopoli. Ma qui, come è facile immaginare, la metafora si consuma.
Carlo Magno non si riteneva, però, proprietario dei tesori che raccoglieva o acquisiva in guerra, che erano “del Regno”, ma ne disponeva per liberalità o per fini di politica estera. Anche le “fondazioni” iraniane del regime sciita appartengono direttamente ad Allah, mentre i dirigenti ne solo “custodi”.
Le classi dirigenti elettive sono invece, nelle democrazie moderne, anche proprietarie delle risorse, di cui decidono l’entità e l’utilizzazione.
Mai si è realizzata l’idea della Rivoluzione Americana, ovvero la rappresentanza per la gestione e il controllo delle finanze pubbliche affidate ai politici. E sarebbe, questa, una rivoluzione davvero radicale, anche in Occidente.
Ma, alla fine, la domanda di Schmitt si ripropone: chi comanda, nel momento di necessità, ovvero quando tutto il sistema sta per implodere? Chi tutela i formaggi quando tutti scappano?
E chi, infine, dirige la spesa pubblica, con quali criteri, visto che nessuna tradizione democratica occidentale li descrive con la necessaria sufficienza?
Le cariche elettive nel mondo moderno, prima o poi, sono tutte stipendiate, la burocrazia copre e nasconde sempre i meccanismi di controllo della spesa, il costo del raggiungimento di determinate cariche elettive è poi calcolabile; e deve essere recuperato il prima possibile.
Nel caso italiano, la borghesia non ha mai superato davvero il suo stadio da “comitato di affari” del singolo candidato di fiducia, come accadeva con Giolitti, che risolveva le sue campagne elettorali con potenti libagioni e ottimi spuntini, in giro per i paesi della provincia granda.
I partiti di massa, in Italia, nascono davvero con la preparazione della Prima Guerra Mondiale, eliminano o marginalizzano, anche con il fascismo, la borghesia italiana dalla rappresentanza politica, soprattutto tramite i loro apparati, che devono essere stabili e diffusi, quindi molto costosi.
I liberali italiani non superano più questa fase, lo faranno solo aggregandosi, in pura dimensione anticomunista, alla Democrazia Cristiana, che è un partito di massa che costa meno (si sostiene con le reti della Chiesa Cattolica) e permette la gestione degli interessi locali, tramite le correnti, organizzazioni politiche informali che rappresentano, illegalmente o meno, gli interessi particolari, settoriali, materiali dei vari gruppi.
Le correnti entrano nella ideologia politica e sociale cattolica in quanto la teoria della Chiesa è pluralista, umanista, interclassista, quindi non accetta nessuna classe dominante, nemmeno la borghesia.
Altro elemento da studiare, nella fase postmoderna delle democrazie occidentali, che le fa radicalmente diverse dai regimi orientali, molto di più di quanto accadesse ai tempi della guerra fredda, è il nuovo rapporto tra categorie professionali e sociali e partiti politici.
Prima di “tangentopoli” era la classe politica a fare il prezzo delle sue prestazioni. Oggi, sono i gruppi politici a richiedere il sostegno dei gruppi di interesse.
E da qui nasce la nuova forma della corruzione e, visto che l’integrazione tra economie grigie e “bianche” è ormai un grande affare, davanti alle classi politiche si presentano soprattutto le imprese della criminalità organizzata, ovvero quelle che le banche non finanziano bene e che, quindi, si rivolgono al grande affare del riciclaggio.
E questi imprenditori si fanno pagare bene: chiedono un intero sistema di appalti, lo determinano completamente, poi lasciano ai mediatori burocratici e politici le briciole dei guadagni illeciti.
Ma, in linea di principio, qual è, poi, il discrimine tra interesse “personale” e quello “sociale”?
E se un interesse privato costituisse, malgrado le apparenze, il summum bonum per l’intera società?
Si pensi, qui, al caso narrato da Ibsen ne “il nemico del popolo”: un medico scopre l’inquinamento delle acque termali della sua cittadina, ma il fratello sindaco tenta di insabbiare il tutto, visto che la cittadina si regge sull’idroterapia.
La democrazia attuale, probabilmente, si rifarebbe al semplice criterio del numero, presupponendo ognuno nella pienezza della sua sapienza umana, del suo bon sens cartesiano che lo guida automaticamente alla Verità, che vale sempre per tutti e per ognuno. Ma questo, in politica, si è dimostrato falso. Chi ha interesse ad alcuni effetti, conosce magari la Verità, ma segue sempre i suoi interessi, soprattutto materiali, e difende la roba, come la chiamava Machiavelli.
E se così non fosse? Ovvero, se il cittadino non fosse necessariamente la fonte morale del processo politico?
E se poi, come è accaduto nella fase di elaborazione della nostra Costituzione repubblicana, si lasciasse semplicemente la Magistratura autonoma, con un formale cap riguardante la Presidenza del suo Consiglio Superiore al Capo dello Stato, premiandola per essere stata sufficientemente autonoma durante il fascismo, che infatti dovette crearsi i suoi tribunali speciali?
Non fu una soluzione.
Perché la pienezza del voto democratico deve essere assoluta, anche quando si eleggano deputati e senatori indegni. Ma anche la libertà di azione dei Magistrati. Risoluzione logica di questo paradosso non v’è. E se i Magistrati si ergono inevitabilmente a giudici di una intera classe politica, come sta di nuovo accadendo, non sono più terzi, quindi non possono esercitare liberamente la loro azione. Una Magistratura che manipola la politica, anche giustamente, diventa attore non eletto, quindi non legittimato.
E, ancora, come reprimere i reati e rimanere attori non politici, per i Magistrati?
E infatti, oggi, e guarda caso, tutti i regime change in aree sviluppate avvengono con la prassi della defamation, soprattutto economica.
Quando gira la crisi tra le masse la crisi, non c’è niente di meglio che indicare, come colpevoli di tutti, i classici “forchettoni”.
Per non parlare, qui, delle questioni cosiddette di genere, oggi utilissime per la defamation, in quanto l’identità sociale e di classe è stata rivestita, con una perfetta operazione di psyops, da questioni riguardanti vere o presunte identità sessuali o etniche che, come è ovvio, non si possono mutare in nessun modo.
Infatti, poi, il Popolo non è mai il Bene, come avrebbe detto anche Ibsen come diceva Gaetano Salvemini, “un terzo del Parlamento è peggio della Nazione, un terzo eguale alla Nazione, un terzo ancora è il Meglio della Nazione”.
Ogni elettore vota necessariamente il suo: chi sceglierà il manigoldo che poi gli farà un favore, chi invece sarà convinto a dargli la preferenza per le sue alte idealità, del tutto sincere, chi, infine, sceglierà il solito impiegato della politica, che rappresenterà i suoi leciti interessi in una Assemblea dove si parla di tutto, ma di cui non interessa, all’elettore, nient’altro che la protezione del suo particulare.
I cittadini si dimenticano prima della morte del padre che della perdita dei loro beni, diceva Machiavelli.
Ma, come sosteneva giustamente Benjamin Constant, la democrazia dei moderni è quella degli uomini “privati”, che delegano l’esercizio del potere, temporaneamente, a degli uomini “pubblici” che, però, sono anch’essi dei privati.
Non si va più in guerra votandolo, e personalmente, nel mondo moderno, come ai tempi dei Sette contro Tebe, nessuno vota, come ad Atene, escludendo le donne, i criminali, i debitori, i giovani, i malati e gli stranieri.
Per quel che riguarda la Magistratura, come fare in modo che ogni atto contro la classe politica, fondato o meno, non faccia decadere la necessaria terzità del Giudice?
Una soluzione potrebbe essere quella à la Chirac, permettendo all’eletto la conclusione del suo mandato, per poi giudicarlo fuori dal rumore del tempo.
Per la Magistratura, si potrebbe immaginare anche una Presidenza effettiva da parte del Capo dello Stato, intesa ad evitare la sua eccessiva parlamentarizzazione, foriera dell’inevitabile tripartizione descritta da Salvemini.
E come garantire, anche qui, l’indipendenza e la terzità del Giudice?
Temo che, in questo caso, come in quello della rappresentanza politica, valga solo una grande trasformazione culturale ed etica, che le leggi possono implicare ma non descrivere o ordinare.
Marco Giaconi
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03Oct
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