09
Jul

Fondatore dell’École de Guerre Économique (per i non francofoni: Scuola di Guerra Economica), Christian Harbulot può definirsi come un eretico della scienza economica. Dopo una giovinezza caratterizzata dalla militanza nelle frange estreme della sinistra parigina, si dedica allo studio dell’economia redigendo pubblicazioni di successo come Tecniche Offensive e Guerra Economica, che gli varrà il posto di consigliere del presidente del gruppo Intelligence Economica e Strategica delle Aziende al Commissariato generale di Plan, Henri Martre.
Già a partire dagli anni ’80, Harbulot s’interessa a nuovi metodi di studio dell’economia, basandosi su strumenti di osservazione storici e geo-politici. Per Harbulot, le scienze economiche contemporanee sono lacunose poiché si limitano all’analisi dei flussi di mercato senza tenere conto dei fattori storici, sociali e geopolitici propri dei singoli paesi. Nel 1997 fonda, insieme al generale Jean-Pichot Duclos, l’École de Guerre Économique. Ma cosa significa, innanzi tutto, “guerra economica”? La domanda sorge spontanea così come lo stupore nel vedere la parola “guerra” affiancata alla parola “scuola”, termini che abitano ambienti semantici di solito molto distanti. Ma bisogna sforzarsi di comprendere. Per Harbulot la guerra economica si definisce in termini di “rapporti di forze non militari”. Ecco allora che la “guerra” così come la s’immagina abitualmente e quasi spontaneamente è sganciata dal suo significato immediato: elemento interessante. Si può fare la guerra anche senza far ricorso all’uso di armi, e tale guerra può essere combattuta più o meno apertamente e su diversi campi, fra cui quello dell’economia, ma anche del controllo di dati attraverso il cosiddetto “mondo immateriale”, Internet.
Nell’intervista, durata all’incirca due ore, Christian Harbulot dipana i fili intricati dei rapporti fra le potenze mondiali contemporanee, smascherando impietosamente tanto il cinismo atlantista quanto l’in-potenza europea di fronte all’espansionismo cinese. Lo scenario che ne emerge è quello di un mondo dominato dal neo-capitalismo di matrice americana che sembra porsi come unica alternativa possibile alla guerra in senso stretto, quella militare. Tuttavia, oltre queste logiche inquietanti, Harbulot prospetta il costituirsi di forze nuove capaci di contrastare i cinismi esterni e di creare uno spazio d’indipendenza strategica basato su un accordo non europeo e nemmeno atlantico, ma Latino.
MEG: L’originalità del suo approccio in materia economica consiste innanzitutto nel suo metodo comparativo. Lei è uno dei pochi e forse il solo in Francia ad avere elaborato una “geo-economia”: se ho ben capito, prende come “campioni” determinati paesi, ne studia i sistemi economici e poi li mette a confronto, così da evidenziarne le relazioni e gli eventuali punti di attrito. Mi può raccontare qualcosa di più a proposito di questo suo metodo?
CH: Il principio è esattamente questo. Ho creato l’École de Guerre Économique nel 1997 sulla base di una serie di studi sulla tecnica offensiva e la guerra economica che avevo intrapreso per il Ministero della Ricerca. Già allora, si trattava di un’analisi comparata fra diversi paesi scelti non casualmente, al fine di riprenderne la storia e il contesto specifico di evoluzione, ma soprattutto di comprendere in che modo l’economia aveva giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo della loro potenza. Questi tre Paesi erano Gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone, che erano al tempo le prime tre economie mondiali. Così facendo deragliavo dai sentieri classici dell’economia di mercato, che analizza lo Stato e le aziende come due entità separate. Mi rifacevo a una griglia di lettura che mi ha portato a evidenziare delle logiche che il mondo economico classico non trattava o non voleva trattare. Quello che mancava alle scienze economiche tradizionali era una visione sinottica che non si concentrasse esclusivamente sulle logiche del mercato, ma prendesse in considerazione anche altri fattori, come la storia geopolitica dei diversi Paesi. Oggi stiamo integrando a questi concetti lo studio dell’evoluzione della società dell’informazione, del cyber world e dei problemi di resilienza: il campo di azione si è decisamente espanso rispetto agli inizi.
MEG: Ha detto che il fulcro della sua ricerca consiste nel mettere a confronto le dinamiche economiche di diversi paesi al fine di comprendere come questi ultimi utilizzino l’economia per sviluppare la propria potenza. Mi viene allora voglia di chiederle qual è la sua definizione di potenza (rispetto a uno Stato, evidentemente)
CH : La mia definizione di potenza è dinamica, nel senso che evolve nel tempo. Se guardiamo alla Storia vediamo come la nozione di potenza nasca con la creazione degli Imperi, per i quali la potenza è l’espressione della volontà di dominazione geografica. Tale dominazione può esprimersi sia in termini d’influenza militare (quindi attraverso le conquiste), sia d’influenza mercantile, come nel caso degli antichi imperi del Mediterraneo, i quali non miravano tanto alla conquista territoriale quanto al monopolio degli assi mercantili all’interno del Mediterraneo. Ecco allora le prime due espressioni storiche della potenza: conquista territoriale da una parte, monopolio delle vie commerciali dall’altra. Al tempo stesso non dobbiamo perdere di vista un altro aspetto che viene spesso trascurato, vale a dire che tali imperi si sono creati grazie al fenomeno della schiavitù. La creazione della ricchezza da parte dell’uomo, quando la si esamina attraverso il prisma dei rapporti di forza, appare obbligatoriamente nella costruzione degli imperi e tali imperi, lo ripeto, si manifestano o attraverso la conquista territoriale o grazie al monopolio delle vie commerciali, ma anche obbligatoriamente attraverso una mano d’opera che lavora in condizioni di schiavitù. Questo è il punto di partenza della riflessione. La questione dell’accrescimento della potenza attraverso la conquista territoriale o la dominazione commerciale sarà centrale per l’apparizione degli imperi anche dopo il periodo moderno, penso in particolare alla nascita dell’impero marittimo britannico del XVIII secolo. L’impero britannico è un ottimo esempio d’impero la cui potenza si basa sulla dominazione degli assi mercantili e non sulla conquista territoriale o la dominazione militare. Al contrario, l’impero napoleonico- continentale- basava l’accrescimento della sua potenza sulla dominazione militare e territoriale e la sua organizzazione economica era molto diversa da quella dell’impero britannico. Potremmo prendere in esame altre realtà (impero austro-ungarico, impero russo eccetera) e trovarne le particolari specificità. È quindi importante riuscire a identificare le differenze fra le entità territoriali analizzate, cosa che gli economisti di oggi non fanno. Gli economisti si concentrano al contrario sull’evoluzione dell’uomo nella storia delle civilizzazioni, sulla creazione degli strumenti finanziari utili a sviluppare gli scambi e sulla successiva internazionalizzazione di tali scambi.
Ora, il concetto di potenza è, come ho detto, dinamico ed evolve nel corso della storia contemporanea. Prenderò come esempio gli Stati Uniti, che sono l’emblema dell’oscillazione fra accrescimento della potenza per via di conquista territoriale e di dominazione commerciale. Il primo caso si verifica innanzitutto con lo sterminio della popolazione indiana; vi è inoltre una certa astuzia degli Stati Uniti nel loro mettere sotto accusa gli imperi coloniali europei pur essendo essi stessi un paese colonizzatore e intrusivo (basti pensare alle Filippine, ma anche al Vietnam, all’Afghanistan e all’Irak).
Per giungere a una definizione di potenza ai giorni nostri, è necessario abbandonare i criteri classici definiti da Raymond Aron, il quale definiva la potenza di un Paese sulla base di dati relativamente semplici: controllo demografico, padronanza delle materie prime e del potenziale industriale. Perché Aron non è andato oltre questa lettura semplicistica? La risposta è che Aaron era un atlantista e operava nel periodo della guerra fredda: pur intervenendo in un campo puramente accademico, non voleva fornire al blocco dell’Est degli argomenti che potessero essere rivolti contro il polo occidentale atlantico. Così non troviamo nulla, nei suoi scritti, sulle contraddizioni interne delle potenze occidentali in campo economico, che tuttavia esistevano (basti pensare ai problemi legati alle negoziazioni del piano Marshall fra Stati Uniti e paesi europei). Ora, la definizione di potenza è per me strettamente legata a un concetto che in Francia è difficile far passare, vale a dire “l’accrescimento della potenza per mezzo dell’economia”. Ci sono Paesi, oggi, che hanno completamente integrato la nozione di economia come perno della potenza, come gli Stati Uniti. Ma ci sono altri Paesi con un percorso più complesso che vale la pena di analizzare. Il primo è il Giappone.
La storia del Giappone fino alla fine degli ani ‘80 è l’espressione di un paese che n0n ha altra scelta se non accrescere la propria potenza attraverso l’economia innanzi tutto per evitare di essere colonizzato. L’umiliazione giapponese di Pearl Harbor sfocia nell’emergenza di una forma di comunismo che si esprime soprattutto attraverso scioperi nel sistema educativo. Preoccupati da questa situazione, gli Stati Uniti hanno fatto delle concessioni al Giappone al fine di evitare che il paese finisse nell’orbita del blocco comunista. Gli Stati Uniti dovettero così accettare che il Giappone, privo di potenza militare e bellica, sviluppasse il suo potenziale economico. Vediamo così apparire un Giappone concorrenziale che alla caduta del muro è denunciato come tale da un rapporto che resterà famoso nella storia dell’economia, vale a dire il rapporto Japan 2000, in cui si denunciava il fatto che il Giappone non giocasse secondo le regole del sistema economico liberale. Guarda caso, in seguito a questo rapporto il Giappone subirà le conseguenze di una gravissima crisi finanziaria. L’obiettivo coniugato di Stati Uniti ed Europa di bloccare l’espansionismo economico giapponese è stato così raggiunto, dal momento che anche oggi il Giappone non riesce a ritrovare lo slancio che aveva fino alla fine degli anni ‘80.
Il secondo paese interessante è la Corea del Sud, che esce profondamente indebolita sul piano economico dalla guerra delle Due Coree. Questo paese deve quindi costruire un’economia ex nihilo, e l’ha fatto attraverso l’instaurazione di un regime politico relativamente autoritario e una serie di riforme fra cui quella del sistema educativo. Ciò che è interessante della Corea del Sud è che essa è il solo paese ad avere rivendicato pressappoco apertamente la nozione di guerra economica. Qualche tempo fa un mio studente che tornava da un soggiorno di sei mesi in Corea del Sud mi ha raccontato un aneddoto che trovo emblematico: all’inizio della sua esperienza all’Università, l’autorità universitaria sud coreana aveva riunito tutti gli studenti stranieri in un anfiteatro, precisando in un discorso ufficiale che “la Corea del Sud si trova attualmente in una situazione di guerra economica”, sottintendendo evidentemente l’obbligo di rispettare le loro regole e la loro maniera di condursi.
L’ultimo paese di cui voglio parlare è la Cina. La Cina che, non volendo subire la sorte dell’Unione Sovietica, ha realizzato un exploit senza precedenti, riuscendo a diventare la seconda economia mondiale nell’arco di un quarto di secolo. Bisogna ricordare che la Cina è un paese indipendente, diversamente dal Giappone sul cui suolo stanziano le truppe americane. La Cina ha completamente integrato il concetto di accrescimento della potenza per mezzo dell’economia, riuscendo a ricomprare una sostanziale quantità di grandi firme mondiali che hanno investito sul suo territorio, ad esempio il gruppo francese agricolo Limagrain che contava 15 000 dipendenti e aveva sedi in Cina da qualche anno. I cinesi non giocano sul terreno del mercato aperto e della libera concorrenza: oggi sono loro i veri rivali degli Stati Uniti sul piano della guerra economica.
MEG: Esistono esempi di accrescimento di potenza attraverso l’economia anche in Europa? Penso in particolare alla Germania, che dal dopo-guerra ad oggi si è aggiudicata il ruolo di prima economia europea. In Francia ma anche in Italia si guarda spesso alla Germania con diffidenza. Ma come interpretare la sua strabiliante evoluzione economica da cinquant’anni a questa parte?
CH: La Germania ci porta effettivamente a un esempio dell’accrescimento della potenza per mezzo dell’economia nella sfera europea. Se guardiamo alla Germania del dopo guerra, è difficile spiegarsi la sua esplosione degli anni successivi. Basti pensare a tutti i limiti della Germania prima dell’’89, dalla divisione in due parti all’occupazione militare. Come analizzare allora la progressione dell’economia tedesca? La risposta va ben oltre il proverbiale senso del lavoro dei tedeschi. Per rispondere alla sua domanda è necessario ancora una volta uscire dai sentieri battuti della scienza economica tradizionale. Trovo sempre sorprendente per un paese come la Francia, che ha avuto numerosi intrecci storici con la Germania, che nessuna seria analisi sia stata fatta ad esempio sul perché certi vecchi ufficiali di Weimar dopo numerosi anni di detenzione siano divenuti degli imprenditori. E non si tratta di qualche decina, ma di un fenomeno massivo che meriterebbe di essere analizzato al microscopio, poiché ci porta a capire come un paese sconfitto e apparentemente privo di risorse come la Germania del dopo guerra sia stato capace di un tale balzo in avanti. Le scienze economiche tradizionali non ci forniscono che risposte parziali. Come il Giappone dopo la guerra e come anche la Corea del Sud, la Germania sconfitta ha saputo beneficiare di un certo numero di aiuti per la ricostruzione, divenendo poi la buon’allieva della strategia economica americana in Europa. La presenza industriale tedesca sul territorio americano non è solo il risultato di una strategia aziendale vincente. Nel corso della Guerra Fredda vennero stipulati degli accordi fra la Repubblica Federale Tedesca e un certo numero di governi americani. Abbiamo dunque una spiegazione sociologica dello sviluppo tedesco.
MEG: Ha parlato della Germania come della “buon’allieva” degli Stati Uniti, senza i quali la ripartenza economica non sarebbe stata possibile. Tuttavia oggi le cose sembrano cambiate, e la Germania sembra uscire da questo ruolo, come dimostrano i dazi doganali su acciaio e alluminio recentemente imposti da Trump, fra gli altri, anche all’Europa. È d’accordo con questa lettura?
CH: Gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione particolarmente delicata. Hanno come concorrente la Cina comunista che ha sviluppato una forma di economia di mercato ultra competitiva e concorrenziale. Di fronte a questa minaccia, l’economia americana, che si è largamente finanziarizzata e allontanata dai territori, si ritrova davanti un problema maggiore, ovvero come contenere l’economia cinese espansionistica. Trovandoci in una logica di potenza, si capisce come gli Stati Uniti, che devono già far fronte all’emergenza della potenza economica cinese, non abbiano assolutamente voglia di avere alle spalle l’emergenza di una potenza cosiddetta “amica” che si chiamerebbe Unione Europea, di cui non possono identificare l’evoluzione e la cui autonomia strategica dipenderebbe dal suo avvicinarsi ad altri paesi che preoccupano gli Stati Uniti, come la Russia. È del tutto evidente che gli Stati Uniti non ne vogliono sapere di una potenza europea indipendente. Come lei ha ricordato, la Germania è la prima potenza economica europea, ma la Germania non è soltanto questo. Contrariamente alla Francia, essa ricostruisce lentamente ma progressivamente la sua potenza, e lo fa su un terreno diplomatico, stipulando degli accordi bilaterali importanti con la Russia, ma anche su un terreno militare. Vi è poi in Germania, come del resto in molti altri paesi europei, l’immenso problema del fenomeno migratorio, che andrebbe ugualmente studiato in una prospettiva socio-economica. In fin dei conti, per tornare alla sua domanda iniziale, la potenza di un paese è tutta una questione di autonomia strategica. Non esiste potenza senza autonomia strategica. La Russia ce l’ha, la Cina anche, l’Iran cerca di averla, certi paesi più piccoli come la Corea del Nord se la sono conquistata…
MEG: La Francia ha un’autonomia strategica?
CH: No, la Francia non ha alcuna autonomia strategica. Dopo la sconfitta subita nel 1940, le élites francesi sono diventate profondamente pro-atlantiste, ritenendo che la loro sicurezza fosse garantita solo ed esclusivamente dagli Stati Uniti. La Francia risente ancora dell’esito della Seconda Guerra Mondiale.
MEG: Il Generale De Gaulle a suo tempo aveva criticato l’asservimento atlantista della Francia… politica dimenticata?
CH: De Gaulle ha effettivamente fatto un tentativo, ma è un capitolo della storia ben presto superato. Oggi la Francia non si trova in una situazione di autonomia strategica, ma il problema è che gli Stati Uniti hanno davvero la priorità di contenere la Cina e non hanno cento modi per farlo: o lo fanno sul piano militare o su quello economico. Per il momento, fortunatamente, non si tratta del primo caso. Il trattato transpacifico e il trattato transatlantico non sono bastati a contenere l’espansionismo cinese. Ecco allora che gli Stati Uniti mettono in atto una strategia diversa che consiste nella riattivazione di un sistema protezionistico per tentare d’indebolire la Cina nella sua dinamica di crescita, basata in gran parte sull’esportazione. In questa storia l’Europa non esiste! L’Europa è una forza suppletiva alla quale gli Stati Uniti domandano obbedienza. Il paradosso di questa storia è che gli Stati Uniti sono stati creati dall’Europa. Gli Stati Uniti conoscono dunque la matrice delle nazioni europee e hanno compreso che la più grande minaccia per loro consiste in un’Europa di Stati nazioni indipendenti e convergenti, e non in un’Europa federale di cui avrebbero il pieno controllo militare e diplomatico. Oggi ci troviamo in un’Europa di Stati nazioni tuttavia priva di una reale indipendenza strategica. L’Europa, oggi, non è che un assemblaggio di Stati non convergenti. Coloro che parlano della coppia franco-tedesca parlano di un’illusione. È chiaro che la Germania ha un avvenire del tutto diverso da quello della Francia, che piaccia o no a Macron. La situazione della Germania è estremamente complessa, poiché mentre cerca di continuare ad essere la buon’allieva degli Stati Uniti (che ormai non è più) cerca di ricostruire l’Europa (anche in questo caso senza grande successo, viste le contraddizioni economiche interne dell’Europa) e di emanciparsi come potenza. E di fronte a sé cos’ha? Una Francia relativamente indebolita sul piano economico per via del suo processo di disindustrializzazione, che ha sì un certo peso geostrategico assicurato dal potenziale nucleare, ma che d’altra parte comincia ad essere sempre più isolata dagli altri paesi europei, i quali non sono ciechi e hanno ben compreso che lo scenario delle elezioni di Macron consisteva in Macron che diventa il buon allievo degli Stati Uniti, per frenare la spinta della ricostruzione tedesca. Sfortunatamente per Macron, gli Stati Uniti hanno altre gatte da pelare che accordare questo primato alla Francia; il bell’incontro fra Macron e Trump negli Stati Uniti è stato completamente insensato, poiché gli Stati Uniti sono geo-strategicamente altrove. Il problema di Macron oggi è che non ha un piano B. Il suo piano B è di cercare di aggrapparsi il più possibile a un morto vivente che si chiama Madame Merkel, la quale non riesce più a tenere insieme un’unità politica in Germania.
MEG: Poco fa mi ha detto che la questione dei migranti ha una rilevanza geo-economica. Può essere più specifico?
CH: Tutta la questione dell’immigrazione ruota intorno a una semplice domanda: chi arma le navi delle ONG e chi le finanzia? Se scoprissimo che sono proprio gli Stati Uniti d’America che indirettamente armano queste navi e le finanziano, si tratterebbe di un problema di rilevanza maggiore fra Europa e Stati Uniti. Il problema di natura tutt’altro che umanistica…
MEG: Crede davvero che sia così? Dietro al disastro migratorio che affligge l’Europa ci sarebbero gli Stati Uniti? A che scopo?
CH: Gli Stati Uniti sono abbastanza furbi da non esporsi apertamente. Nessuna inchiestuccia giornalistica o privata potrebbe dimostrare quello che dico, ma solo un’operazione dei servizi segreti di Stato. A mia conoscenza nessun paese europeo ha, ad oggi, il coraggio di avanzare su questo terreno. Io pongo qui solo un’ipotesi. L’ipotesi che la grande questione dei flussi migratori si spieghi attraverso la volontà di destabilizzare l’Europa e in particolare gli Stati nazione europei. Non voglio fare il complottista, la mia è un’ipotesi che andrebbe studiata in modo professionale, ma in nessun caso la si può escludere, per una ragione molto semplice: alla fine del diciannovesimo secolo gli Stati Uniti, con la dottrina Monroe, si presentano come il Paese che promuove il diritto dei popoli a disporre di se stessi, pur essendo, loro per primi, una potenza colonizzatrice esattamente come gli imperi coloniali europei. É tempo di ricordare questo aspetto e di dirlo ad alta voce: quella degli Stati Uniti fu prima di tutto una colonizzazione interna, per poi divenire una colonizzazione esterna. Ora, nelle scienze politiche che mi hanno insegnato a SciencePo Paris non c’era nemmeno un corso dedicato a questo tema. Il grande cinismo atlantista si è evoluto nel tempo. Una volta consisteva nell’esportazione della democrazia, politica che dopo l’undici settembre è andata in frantumi. A questo piano che crolla se ne sostituisce un altro che consiste a dire che è necessario che le nazioni europee accettino le correnti migratorie con il pretesto che l’Africa non ha le capacità di sopperire ai bisogni del suo popolo. E così, fino ad oggi, gli Stati Uniti escono strategicamente vincenti su ben due fronti: da una parte perché Madame Merkel ha spalancato fino a ieri l’altro i confini della Germania ai migranti, con le conseguenze che oggi vediamo. Dall’altra parte il cinismo degli Stati Uniti diventa eclatante nel momento in cui vediamo l’ambasciatore americano in Germania felicitarsi della re-emergenza di una dinamica nazionalista in Europa, dinamica che volta le spalle all’autonomia strategica di una potenza europea. Tale cinismo atlantista è a mio avviso preoccupante e ancor più preoccupante è il fatto che non esista un dibattito europeo su questo tema. Ad oggi, nessun paese europeo pone il dibattito in questi termini.
MEG: In Italia dopo il periodo turbolento delle elezioni di Marzo qualcosa sembra starsi muovendo. Che ruolo potrebbe avere l’Italia nella ricostruzione eventuale dell’Europa?
CH: L’Italia è un paese che mi sta a cuore poiché mia madre era italiana e immagino di portare in me delle tracce della vostra cultura. Non dimenticherò mai una sessione che ho avuto due mesi fa alla Scuola Militare, si trattava di un seminario intitolato “La Vittoria”. Ho dovuto ricordare alla platea che nel ventunesimo secolo, a livello mondiale, il Paese ad avere riportato una vittoria a livello strategico contro il terrorismo, è l’Italia. Nessun altro paese in Europa, ma non soltanto in Europa, ha resistito tanto a lungo alla minaccia terrorista. L’Italia si è quindi inventata un sistema per contrastare una minaccia di livello mondiale. Il problema è che noi, da qui, in Francia, non comprendiamo quello che sta succedendo in Italia. Quel che resta della misera intelligentia francese non conosce l’Italia. Sono stato in Italia negli anni ’70, al tempo ero un militante di estrema sinistra… sono andato a conoscere Negri, sono andato a conoscere la gente di Autonomia Operaia, ho incrociato personaggi delle Brigate Rosse… e ho visto qualcosa che non avevo mai visto prima in Francia. Ad esempio, il Partito Comunista Italiano non è certo nato nelle stesse condizioni in cui è nato il Partito Comunista Francese, ma a partire da un movimento di scioperi insurrezionali poi sfociato in un cambiamento di regime. I combattimenti politici o militari italiani degli anni ’70 non hanno nulla a che vedere con quelli francesi. Quando sono rientrato dal mio soggiorno italiano, ho scoperto con mio grande stupore che in Francia nessuno sapeva queste cose. Nessuno conosceva i quaderni rossi, le sottigliezze della scissione che era avvenuta all’interno del PC dopo la guerra, la maniera in cui il PC aveva dovuto combattere tale scissione, eccetera. In breve, la storia contemporanea italiana è sconosciuta alla stragrande maggioranza dei francesi. Oggi succede esattamente la stessa cosa. Quando ascolto i giornalisti francesi parlare di quello che succede in Italia, nessuno si rende conto dei cambiamenti di cui lei mi ha parlato. Vede, se io fossi italiano, la priorità per me sarebbe capire perché gli altri non mi comprendono e non mi conoscono e cercare di farmi conoscere. Nello spirito francese, l’Italia è ancora l’immagine dell’Impero Romano, è il Latino. E poi, più nulla. Invece, dopo l’Impero Romano, c’è l’Italia che si costruisce. Come parlare oggi dell’Italia? Lei mi ha raccontato che lo IASSP si pone l’obiettivo di formare una nuova élite intellettuale e politica… bene, la conditio sine qua non consiste nel chiedersi come far parlare dell’Italia all’estero. Qualche tempo fa, un ambasciatore all’UNESCO mi ha parlato di un concetto davvero affascinante, vale a dire dell’Asse Latino… mi disse che esso esiste, ma solo in embrione. Ci fu negli anni Quaranta un accordo che venne stipulato fra i Paesi dell’America Latina e i Paesi latini in Europa. All’epoca non ne sapevo nulla. Fu così che mi avvicinai per la prima volta all’idea di un Asse Latino e mi dissi che tale Asse non si basava che su musei e lingue morte. Cominciai a interrogarmi su cosa fosse davvero l’Asse Latino… è un’arte di vivere, è una forza culturale, è un legame potenzialmente interessante fra continenti. Mi rendo conto che né gli spagnoli, né i portoghesi né gli italiani né i francesi sono in grado di lavorare su ciò che potrebbe essere l’Asse Latino. Non parlo qui della strategia di Sarkozy sul bacino mediterraneo, parlo dell’Asse Latino in senso stretto.
MEG: E come immagina questo Asse Latino in termini più specifici? Si tratterebbe di un’alleanza economica, militare, politica? Come potrebbe costruirsi?
CH: Credo che nella situazione in cui ci troviamo oggi, in cui siamo piuttosto in trappola, è fondamentale definire dei nuovi equilibri per creare degli spazi d’indipendenza e di manovra. L’Asse Latino nel mio immaginario è uno strumento che crea le premesse per uno spazio d’indipendenza strategica. Le faccio un esempio concreto: l’École de Guerre Économique appartiene a un gruppo spagnolo che si chiama Planeta, il quale è a sua volta associato al gruppo italiano De Agostini… Ma guarda! Un gruppo spagnolo, un gruppo italiano, una struttura francese: interessante… Perché non lavorare su questo genere di dialogo? Io le assicuro che in quanto franco-italiano che ne ha abbastanza dei politicanti di un Paese incapace di inventare nuovi racconti, sono indignato dal cinismo americano che è cianuro per l’Europa e m’interrogo costantemente su possibili metodi di ricomposizione.
MEG: In che modo tale Asse Latino potrebbe contrastare il cinismo atlantista e il capitalismo finanziario oggi dominanti?
CH: Non ho ancora una risposta a questa domanda, bisogna pensarci. Cosa vorrebbe dire? Su cosa l’Asse Latino riposa? Qual è la sua particolare dinamica tanto nella zona mediterranea che in quella latino-americana, ed eventualmente su altri territori. Ho trovato interessante il discorso di Macron in Australia, quando ha detto che l’India, la Francia e l’Australia potrebbero creare un asse di alleanza. Non è falso, alla condizione di non fermarsi a qualche piccolo contratto di armamento, ma di andare più lontano. Per il momento la Francia è incapace di andare più lontano a causa della configurazione stessa delle sue élites. C’è un film che ha entusiasmato la gioventù europea, si chiama l’Appartamento Spagnolo… Lei lo ha visto?
MEG: Certo, come tutti i figli della generazione Erasmus!
CH: Bene. Io credo che si debba andare oltre l’Appartamento Spagnolo. Bisogna re-entusiasmare la gioventù su un discorso di ricomposizione che ci metta finalmente al sicuro dal cinismo che ci circonda. Parlo delle radici intricate nella nostra identità. Dovremmo interrogarci sui contenuti dell’Asse Latino. Quali potrebbero essere? Per quanto mi riguarda, non m’interessa restare a guardare mentre le élites americane studiano il modo in cui sposto il mouse del mio computer al fine di valutare come e quale réclame pubblicitaria fare apparire un’ora dopo sullo schermo del mio Smartphone. La creazione atlantista dell’impero della dipendenza digitale non m’interessa. Non ho voglia di ritrovarmi in questa siderale disparità dove gli abitanti della Silicon Valley mettono i loro figli in scuole di lusso mentre tutti gli altri s’imbruttiscono davanti ai loro piccoli schermi impoverendosi intellettualmente. Io non lo accetto. E allora, cosa possiamo mettere dentro all’Asse Latino? Possiamo metterci l’educazione, la cultura, un vero ragionamento rispetto alla società dell’informazione. Perché non costruire un’economia della conoscenza? In altre parole, se si cerca c’è un’enormità di cose che potremmo mettere in comune. Ma è necessario cercare. E insisto che in questo quadro è vitale che si conosca e si capisca la realtà italiana, è vitale che non si caricaturizzi l’Italia. Per quale cammino allora possiamo comprendere davvero l’Italia? Abbiamo a nostra disposizione uno strumento potente come internet, ma anche la creatività in potenza del mondo dell’educazione. Non è impossibile, è una questione di v-o-l-o-n-t-à. Dobbiamo abbandonare le vecchie logiche di decostruzione per darci dei nuovi punti di partenza. Quando le parlavo di educazione intendevo anche dire che è necessario che la gente ri-apprenda certe cose, che se ne ri-appropri.
MEG: Ultima domanda: perché proprio Asse Latino? Non poteva essere, che so, Basco, o Fiammingo?
CH: Perché nella storia del mondo Latino vi è un impero che è scomparso ed è vitale comprendere come e perché è scomparso, al fine di non vivere due volte la stessa storia. Ecco la legittimità della riflessione latina. Questo impero è interno a quelli che ho precedentemente citato. Ecco la sua forza: la forza della memoria e della comprensione. E deve comprendere un immaginario letterario, poetico ma soprattutto, e ciò è fondamentale, trascendentale.
Maria Elena Gottarelli
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply