09
Apr
Perché l’Italia dovrebbe interessarsi a una riforma, come quella della SNCF, che riguarda le linee ferroviarie francesi, un argomento a prima vista ostico, settoriale e impolitico? La risposta è che, contrariamente alle apparenze, questa riforma è nella sua essenza profondamente politica e s’inscrive in un progetto europeo e sovra-nazionale che interessa, in quanto tale, anche l’Italia. La riforma ha inoltre un valore altamente simbolico per quanto riguarda la politica di Macron, i cui tratti neo-liberali e autoritari si fanno via via sempre più evidenti.
È stato un inizio di primavera burrascoso, qui Oltralpe. Se marzo è stato il mese dei malcontenti sociali, aprile si è aperto con un movimento di proteste e di scioperi paragonabili a quelli del 1995 contro la riforma delle pensioni e della sicurezza sociale. Gli scioperi dei ferrovieri hanno perturbato il paese da martedì scorso e dovrebbero protrarsi fino a luglio, salvo revisioni (poco probabili) da parte del governo.
Alle origini del malcontento vi è la decisione di riformare la società di treni SNCF, che ha toccato, nel 2017, i 54,4 miliardi di debito. Attualmente composta di tre strutture pubbliche a carattere industriale e commerciale (Direzione, Mobilità e Trasporti), la SNCF assumerà attraverso la riforma lo statuto di società nazionale a capitali pubblici. Grazie a questo cambiamento di statuto sarà possibile aprire la SNCF alla libera concorrenza, parola chiave per capire tutta la riforma. Concretamente, a partire dal 2020 le regioni francesi ad eccezione dell’Ile de France potranno fare le prime offerte di attribuzione delle loro linee ferroviarie ad altri operatori oltre che SNCF. Ciò pone un problema in due sensi.
Innanzi tutto, per quanto riguarda lo statuto sociale di tutti quei lavoratori che da dipendenti della SNCF diventeranno dipendenti della società X che acquisirà la linea ferroviaria in questione. Ovviamente, queste persone perderanno il loro contratto con la SNCF ed entreranno sotto la tutela di un nuovo patronato: come garantire i loro diritti, il loro salario minimo, le loro ore di lavoro e la loro assicurazione sanitaria? Ma c’è di più, perché in questo senso il governo ha annunciato l’abolizione (non retroattiva) dello statuto di ferroviere, che assicura al medesimo una serie di diritti e privilegi extra come l’impossibilità di licenziamento economico, i congedi pagati, uno stipendio netto di oltre duemila euro al mese, la pensione anticipata e altri. Tutti questi privilegi, esistenti dal 1920, avranno fine l’estate prossima, ma solo per i nuovi impiegati. L’abolizione dello statuto dei ferrovieri è stata il centro di gravità attorno al quale hanno ruotato gli scioperi e le proteste delle ultime settimane, ma in realtà non si tratta che della cima dell’iceberg alla cui base sta l’apertura alla libera concorrenza voluta dal governo.
L’altro problema posto dalla libera concorrenza risiede nella potenziale chiusura delle tratte regionali, meno frequentate rispetto a, ad esempio, la Lione-Parigi, e quindi meno appetibili per i futuri investitori. Inizialmente il rapporto Spinetta prevedeva la chiusura di alcune piccole linee regionali, ma il provvedimento è stato in seguito revocato. I critici della riforma fanno notare come, di fatto, questa modifica non cambierà l’avvenire delle piccole linee, che non potranno che uscire svantaggiate dal darwinismo economico della libera concorrenza.
In risposta alle proteste delle ultime settimane, il capo dello Stato non ha rilasciato dichiarazioni, se non un lapidario “Ne vous inquiétez pas”, “Non preoccupatevi” pronunciato dalla sua auto mentre era di ritorno dalle vacanze pasquali, lunedì scorso. In questi giorni, il presidente si sta occupando di altri temi, come la scolarizzazione dei bambini autistici in Francia o lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Sulla riforma SNCF, regna il silenzio stampa.
Mentre il governo tace, qualche interpretazione può tuttavia essere avanzata: come fa notare la giornalista Natasha Polony, la riforma della SNCF è in realtà inscritta in una normativa europea che data al 1986, anno della stipulazione dell’Atto Unico Europeo, in virtù del quale gli stati dell’Unione hanno l’obbligo di aprire progressivamente i loro servizi pubblici alla libera concorrenza. Si tratta quindi di un movimento generalizzato che ha coinvolto, con esiti molto diversi l’Italia, il Regno Unito, la Germania, la Svezia e naturalmente la Francia. Nel 1991, in Francia, è stato il turno di EDF, il primo produttore di energia elettrica, poi di Telecom France. In Italia, Eni è ha intrapreso il suo percorso di privatizzazione a partire dal ’92 ed è divenuta ufficialmente una SpA nel ’95. Gli esempi possono moltiplicarsi. La SNCF, che ha rappresentato fino ad oggi uno dei grandi mastodonti del settore pubblico francese, si apre così alla liberalizzazione. “Del doman non c’è certezza”, certo, ma la strada intrapresa è innegabilmente quella di una possibile futura privatizzazione.
Questa riforma, lungi dal rappresentare una semplice volontà di miglioramento delle infrastrutture o una banale modifica di statuto della SNCF, si iscrive piuttosto in un macro processo che è politico ma anche storico. In quest’ottica, si può discutere se le liberalizzazioni siano un bene o no per gli Stati e d’altra parte lo studio delle casistiche dimostra che ciò dipende da innumerevoli fattori economici, sociali e politici interni a ciascun Paese. La questione, quindi, non riguarda tanto il prendere posizioni di merito, quanto riconoscere l’esistenza di un sistema, quello neo-liberale che è fondamentalmente dogmatico in quanto imposto dall’alto alla società civile, a dispetto delle rivendicazioni democraticamente espresse.
(In sintesi, la morale dell’articolo è: se per il ponte del Primo Maggio avete deciso di visitare la Francia, non prendete il treno!)
Maria Elena Gottarelli
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Cara Maria Elena,
Grazie per l’articolo. È sempre confortante vedere che un tema complesso come la regolazione dei mercati esca dagli uffici ministeriali e coinvolga un più ampio pubblico. Mi permetto di sollevare alcuni punti che mi auguro possano in qualche modo contribuire al dibattito.
Mi sembra che, nonostante la intrigante domanda iniziale, tu non dica che la liberalizzazione deve interessare l’Italia perché permetterà a Trenitalia e Ntv di entrare nel mercato francese, sfruttando la loro esperienza in un mercato già liberalizzato come quello italiano.
Credo ci sia poi un po’ di confusione per quanto riguarda i termini che utilizzi. La liberalizzazione non può essere di un’impresa (SNCF), bensì di un servizio – il trasporto ferroviario in questo caso. Usare in modo intercambiabile i termini “liberalizzazione” e “privatizzazione”, piuttosto che “ristrutturazione aziendale” contribuisce alla confusione concettuale che regna sovrana ogni volta si parla di regolazione.
Non mi convince, poi, la tua frase per cui la base dell’iceberg sia “l’apertura alla libera concorrenza voluta dal governo”. Il processo di liberalizzazione è iniziato negli anni 90 su impulso europeo e solo dal 2020 gli stati saranno obbligati ad aprire i mercati nazionali alla concorrenza, garantendo l’accesso alla infrastruttura in modo non discriminatorio (a meno che non decidano di anticipare l’apertura, come successo in Italia, ad esempio). Quindi la liberalizzazione non è stata voluta dal governo Macron, ma fa parte di un lungo processo di riforma inaugurato in Europa.
Non ti seguo nemmeno quando dici che “grazie a questo cambiamento di statuto sarà possibile aprire la SNCF alla libera concorrenza”. Mi sembra anzi l’esatto contrario: è la liberalizzazione che in un certo senso impone a SNCF di essere più efficiente per competere con altri operatori e, quindi, di riformarsi.
Credo sia opportuno inoltre distinguere tra servizi commerciali (senza sussidi) e servizi pubblici (con sussidi). Questi ultimi, definiti “politicamente” dalle autorità responsabili del servizio, potranno ancora ricevere compensazioni finanziarie (sussidi) e diritti di esclusiva (per cui sulla linea X opera solo l’operatore a cui è stato affidato il servizio). E quindi, la soppressione di linee o servizi regionali poco appetibili dipenderà da valutazioni politiche delle regioni, che nulla hanno a che fare con il metodo di affidamento del servizio, sia questo concorrenziale o no. Sarebbe interessante capire, cosa che l’articolo non fa, cosa ha intenzione di fare il governo Macron con l’affidamento dei servizi sussidiati: gara o affidamento diretto (a SNCF)?
Parli anche dei diritti di quei lavoratori che verranno trasferiti da un operatore ad un altro. Questo vale ovviamente per le tratte sussidiate in cui il nuovo operatore si sostituisce al precedente. In questo caso, il regolamento che disciplina l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico su gomma e ferro (reg. 1370/2007 modificato dal reg. 2016/2338, ma non per quanto riguarda questo articolo (art. 4 par. 5)) ammette che le autorità competenti impongano al nuovo operatore di garantire ai lavoratori gli stessi diritti concessi dall’operatore precedente. Quindi la questione dipenderà, anche in questo caso, dalla volontà politica delle regioni che, di volta in volta, affideranno il servizio. In tutta sincerità, mi vien da dire che oneri sociali imposti su nuovi operatori – quali il trasferimento dei lavoratori e dei loro diritti – saranno la soluzione più probabile negli ipotetici affidamenti concorrenziali, perché le regioni non vorranno subire il costo elettorale che potrebbe derivare da un deterioramento delle condizioni di lavoro (o persino dalla perdita di posti di lavoro) dei numerosi impiegati ferroviari. Ma questa è un'ipotesi.
Chiudo con una nota sul “sistema, quello neo-liberale, che è fondamentalmente dogmatico in quanto imposto dall’alto alla società civile, a dispetto delle rivendicazioni democraticamente espresse”. Mi piace pensare che questo finale ad effetto risponda più a un qualche canone estetico e stilistico piuttosto che a quello sforzo scientifico che dovrebbe guidare chi fa giornalismo e informazione. Basti solo ricordare che questa liberalizzazione, benché sicuramente intrisa di una visione politica e di una nuova concezione del ruolo dello Stato, non è stata imposta proprio da nessuno. È il risultato di decisioni prese da organi europei democraticamente eletti: in modo diretto, per quanto riguarda il Parlamento Europeo e (anche se non per tutti gli Stati) il Consiglio dell’’Unione Europea, e in modo indiretto, per quanto riguarda la Commissione Europea.