16
Apr
Nato e cresciuto a Theniet El Had, un piccolo villaggio algerino ai piedi della catena montuosa di Ouarsenis a sud-ovest di Algeri, Boualem Sansal ha un rapporto conflittuale con il suo paese d’origine, in cui tutte le sue opere sono sotto censura, ree di discreditare il governo e il popolo algerini. Eppure, Sansal non ha mai lasciato l’Algeria: per un senso di responsabilità, dice lui, ma forse, anche, per far dispetto a un governo che soffocherebbe volentieri la sua voce di dissidente.
Porta lunghi capelli grigi legati in una coda che gli danno un’aria da indiano d’America e i suoi occhi, piccoli e penetranti, comunicano un’intelligenza ironica e distaccata. Certo, il suo talento di romanziere è intrecciato in maniera indissolubile con i fatti politici dell’Algeria. Sansal comincia a scrivere tardi e lo fa per cercare di comprendere la guerra civile che, nel 1997, stava raggiungendo il suo culmine e mettendo in ginocchio la popolazione. Il suo primo romanzo, Les Serments des barbares pubblicato nel ’99, è una critica virulenta all’Algeria degli islamisti e del Fronte di Liberazione Nazionale, di cui il neo-eletto presidente Abdelaziz Bouteflika aveva fatto parte durante la guerra d’indipendenza. A dispetto degli insulti e delle minacce ricevute, Sansal non lascia il suo paese e continua a scrivere, giudicando che l’Algeria ha più che mai bisogno di intellettuali e di voci fuori dal coro.
Pluripremiati in Francia, i suoi libri mettono in crisi il pacificato spirito europeo del dopo guerra, ricordandoci che le dittature e le stragi d’innocenti si perpetrano impunemente alle soglie dell’occidente moderno. Il suo ultimo libro, 2084, prospetta orwellianamente un mondo dominato dal totalitarismo, questa volta non comunista, ma islamico. Abistan, è il nome di questo enorme mondo unificato e privato di frontiere, in cui i fedeli della religione di Abi sono mantenuti nella più totale ignoranza e identificati con nomi monosillabici (Ati, Toz, Ram e così via…). In questo universo la miseria e la fame fanno parte della quotidianità, si muore senza disturbare ai bordi delle strade mentre i sopravvissuti invocano meccanicamente l’onnipotenza di Yölah. Lo spirito critico è punito con la persecuzione e la morte.
Eppure la maggior parte del popolo è felice, poiché il totalitarismo religioso permette di vivere nella fede assoluta senza porsi domande, senza scomodarsi a intraprendere il doloroso cammino della conoscenza. Così, proprio come in Orwell, la fantascienza si mescola a un inquietante realismo, poiché, ci ricorda Sansal, condizioni di vita simili si sono effettivamente verificate e continuano a verificarsi, ad esempio sotto i talebani in Afghanistan, o nei paesi musulmani più radicali. L’intervista verte sul rapporto di Sansal con l’Algeria, sulla sua critica dell’Islam e della religione in generale ma anche, in prima istanza, sulle possibilità date a un essere umano qualunque di trascendere le condizioni storiche e geografiche in cui si trova per intraprendere liberamente il difficile cammino della rivolta.
MEG: Che rapporto ha con l’Algeria, il suo paese di origine, che non ha mai lasciato nonostante le pesanti critiche ricevute, finanche la censura delle sue opere? Qual è il più grande rimprovero che rivolgerebbe al suo paese? e il più grande elogio, se ve n’è uno?
BS: Il rapporto di amore/odio per il proprio paese è un grande classico. Dal giorno della sua indipendenza (il 5 luglio 1962), che avrebbe dovuto portarle libertà, dignità e prosperità, l’Algeria vive sotto una dittatura militare deleteria. Afflitto dalla corruzione, dall’islamismo e dalla violenza, il paese è chiuso rispetto al mondo, al quale dona un’immagine di sé deplorevole. Non è questa l’Algeria che amo, ma ne esiste una che invece apprezzo e rispetto, l’Algeria discreta, amabile, accogliente, inventiva, che resiste pacificamente alla violenza e al potere degli islamisti. Ciò che più mi disgusta della situazione attuale è lo spirito di sottomissione che la società civile accetta in vista di qualche misero privilegio concesso dallo Stato. D’altra parte, le qualità che riconosco a questo paese sono certamente la bellezza e la generosità insite nella sua natura.
MEG: Nel suo libro 2084 il personaggio principale, Ati, vive in un mondo immaginario dominato da una religione totalitaria e assolutista, in cui le persone sono private di ogni libertà e mantenute nell’ignoranza più assoluta. In questo contesto alienante, Ati riesce comunque a concepire l’idea di Rivolta. In segreto, nel suo letto di ospedale, comincia a sognare la libertà. Eppure non c’è nulla, in quell’ospedale sperduto dove Ati si trova, che potrebbe instillargli il germe della Rivolta… da dove viene allora, questo germe? da cosa può nascere la Rivolta?
BS: È effettivamente una domanda essenziale: quali sono i sentieri attraverso cui nasce e si sviluppa la rivolta? All’interno dell’ospedale, Ati scopre una cosa straordinaria: la pluralità, la diversità. In Abistan, tutti sono confinati a vita nel luogo in cui sono nati, o dove vivono e lavorano. In questo modo ciascuno crede che il mondo intero sia fatto a sua immagine. L’uniformità ottusa e meschina è il primo cerchio in cui le dittature rinchiudono il popolo; tutto deve essere uguale, come in una caserma, nulla deve distinguersi da qualcos’altro. In questo spazio, lo spirito si atrofizza e si chiude. Ora, ecco che Ati scopre delle persone diverse, con una morfologia e un colore diversi dai suoi, che parlano lingue differenti, che obbediscono a costumi e leggi differenti. L’Abistan è in realtà Babele… e la conclusione salta agli occhi di Ati: se le persone sono diverse le une dalle altre, allora la verità deve essere relativa, non esiste un valore assoluto. La novità e la diversità generano l’angoscia, poi la collera, infine degli interrogativi terrificanti. Per la maggior parte di coloro che abitano l’ospedale, tutto ciò si riassorbe rapidamente, ma per qualche raro individuo, nella fattispecie Ati, inizia quel lungo e doloroso travaglio che consiste nel ridare un nome alle cose, nell’articolare idee nuove, nel tirare conclusioni e nel decidere del proprio futuro: tutte cose spaventose, per chi per tutta la vita è stato formato per obbedire senza comprendere. È questa, la rivolta.
L’altra questione fondamentale esaminata nel romanzo è la seguente: la rivolta individuale può essere comunicata e divenire rivolta collettiva? Sono esse della stessa natura, conducono entrambe alla collera controllata, organizzata, che porta alla rivoluzione, dunque alla morte, la morte del vecchio mondo, la propria morte senza dubbio, per andare verso un mondo sconosciuto, immaginato, sognato? Queste domande restano molto vaghe in Ati. Egli scopre di essere Ati, simile e diverso dagli altri, vuole capire e conciliare le idee che lo tormentano. Lungo tutto il romanzo, seguiamo il suo percorso di collera, verso la rivolta e probabilmente verso la morte, poiché un individuo non ha nessuna possibilità di vincere contro un sistema che ha raggiunto la perfezione nell’assurdo e nel terrore.
MEG: Alla fine del libro, dopo innumerevoli disavventure, Ati è finalmente libero e può chiedere a Toz di portarlo dove più desidera. Ed ecco la scelta originale di Ati: «Proprio così, mio caro Toz… vorrei che Ram mi facesse deporre là, sul monte Sin nella catena montuosa dell’Oua… là, dove questa Frontiera ha una possibilità su un milione di trovarsi… se così, per miracolo, essa esiste davvero, io l’attraverserò… e lo vedrò con i miei occhi, questo ventesimo secolo che tu hai così fedelmente ricostruito…». Perché, fra tutti i luoghi in cui sarebbe potuto andare, Ati sceglie proprio la Frontiera, che è per sua stessa natura un luogo vago e opaco? Cosa rappresenta questo movimento verso l’ignoto?
BS: La rivolta è sempre un azzardo, non si può mai sapere in anticipo dove porterà; ma una volta innescata, niente la ferma. L’uomo non può vivere in pace se non comprendendo il suo mondo e aderendo ai suoi valori e alle sue credenze. Il sistema dell’Abistan, che sorveglia ogni individuo, finisce sempre per ritrovare i “deviati”: a quel punto li ferma e li rieduca, o lo uccide. Ma c’è una terza via (ed è ciò che accade ad Ati): il sistema può anche decidere di lasciare correre, per capire come tale devianza ha potuto prodursi e come evolve, in modo da sviluppare una profilassi adeguata perché “l’errore” non si ripeta. Il concetto di frontiera è, in effetti, inquietante: è ciò che separa due mondi e al tempo stesso li unisce. È un luogo di verità paradossale, vero da un lato, falso dall’altro, e vice-versa. Tuttavia qui l’idea stessa di frontiera è assurda, dal momento che l’Abistan occupa tutto il pianeta. Frontiera, dunque, rispetto a che cosa? Essa non può esistere. Ati la va comunque a cercare, là, dove presume che dei contrabbandieri o degli oppositori l’abbiano trovata e attraversata nel fuggire ai loro inseguitori. Ha anche pensato ai famosi resti ritrovati dal suo amico archeologo: altro luogo paradossale, alla frontiera fra due mondi, fra due epoche. Ma costui è sparito, assassinato senza dubbio. Si tratta dei due soli luoghi di questo mondo bizzarro dove è possibile trovare una frontiera, reale o simbolica, ed è li che Ati vuole andare, spinto più dalla speranza che dalla conoscenza.
MEG: Il suo pensiero è evidentemente antitotalitario e anche, in una certa misura, antireligioso (è celebre la sua frase «la religione fa forse amare Dio, ma nulla è più efficace di lei per fare detestare l’uomo e odiare l’umanità»). È anche antispirituale? C’è posto, secondo lei, per una dimensione etica e trascendentale (e non necessariamente religiosa) nel mondo post-moderno?
Spiritualità e trascendenza sono l’espressione di bisogni fondamentali dell’uomo, fanno parte della sua essenza più profonda, ma da molto tempo, anzi, da sempre, gli ordini dominanti hanno preso il controllo di questo movimento intimo dell’essere umano e l’hanno piegato al loro servizio. Hanno inventato diversi strumenti per raggiungere questo obiettivo: la religione, l’ideologia, lo schiavismo, il lavaggio del cervello, il condizionamento attraverso la pubblicità, le droghe, i trattamenti psichiatrici etc…
Per me la religione non ha nulla a che vedere con la spiritualità e la trascendenza, elementi del tutto estranei al suo fine. La religione è piuttosto un’organizzazione della vita di gruppo, in quanto fissa delle gerarchie, dei legami, dei rituali, degli obiettivi per fare in modo che il gruppo resti compatto e possa assicurarle la sua stessa protezione. La religione non ricerca né fervore, né spiritualità, né trascendenza (salvo nel momento in cui la necessità obbliga il gruppo a intraprendere una guerra): si tratta infatti di stati di passione incontrollabili che perturbano il funzionamento del gruppo, il quale ha al contrario bisogno di ordine, continuità e calma. Il dramma è che la religione ha spesso tendenza ad abusare del proprio potere, spinge il gruppo così lontano nell’obbedienza da soffocarlo, si spoglia della sua stessa energia, della sua stessa spiritualità, dalla sua stessa forza trascendente, della sua stessa libertà. È questa la religione che denuncio irrevocabilmente.
MEG: Le sue critiche all’Islam sono spesso molto dure. All’accecamento di un credo religioso, lei preferisce la razionalità e l’uso dell’intelletto. Tuttavia, nella lunga storia dell’Islam, ci sono state correnti di pensiero fortemente razionaliste, penso ad esempio al mutazilismo, di cui troviamo degli esempi anche nella Francia odierna… che ne pensa di questa corrente razionalista e anti-letteralista dell’Islam?
BS: Certo, ci sono stati dei momenti nel corso della storia in cui il mondo musulmano, per lo meno in certi luoghi, è stato governato da sistemi aperti, tolleranti, razionalisti. Fra i più conosciuti vi è quello della Mutazila, nata nell’ottavo secolo, che il califfo abbaside El Mamoun impose come dottrina ufficiale; ma ciò durò molto poco, una breve ventina d’anni (827-847). Quell’innovazione, così come molte altre, alcune intelligenti, altre strambe, è stata violentemente combattuta da tutte le correnti sunnite e rapidamente scomparsa. Nel ventesimo secolo, il gran mufti d’Egitto Mohamed Abdou ha cercato d’introdurre elementi di mutazilismo nell’Islam sunnita. Il progetto è fallito. Lo stesso tentativo liberale dei Fatimidi (degli sciiti) al Cairo nell’undicesimo secolo durò appena poco più d’un secolo. L’Islam dei nostri giorni non cessa di radicalizzarsi e d’impedire ogni possibilità evolutiva, per quanto qua e là qualche innovazione cosmetica, di natura tattica (sedurre gli occidentali, distrarre l’attenzione…) sia stata fatta.
In Europa si ha una visione romantica del mutazilismo. Questa corrente in realtà estremamente effimera non ha mai oltrepassato la sfera del palazzo del califfo e non agitava che gli intellettuali di corte che avevano appena scoperto i filosofi greci, di cui riprendevano alcune idee per sposarle con l’Islam. Bisogna però considerare che, al contempo, i puristi dell’Islam facevano di tutto per fissare l’Islam e impedire ogni libera interpretazione dei suoi dogmi, con i risultati che oggi ben conosciamo.
MEG: Mi pare che la libertà sia, per lei, il valore supremo dell’essere umano. Ma cos’è, secondo lei, la libertà?
BS: Non esiste libertà in sé, si tratta di una finzione filosofica. La libertà reale si concepisce all’interno del contratto sociale. In tale contesto, la libertà è il potere per ogni individuo di servirsi di tutti i diritti che la società mette a disposizione per vivere nella pace e nell’armonia. Parlo di « diritti » secondo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ’48 e degli sviluppi successivamente apportati. Ciò significa che non si possono opporre a questi diritti universali alcune concezioni specifiche, ispirate da credenze particolari. Che si sia uomo o donna, cristiano, buddista, musulmano o ateo, ricco o povero, si hanno gli stessi diritti. È per questo che bisogna battersi. Tutto il resto deve essere rinviato alla sfera privata e non contraddire i diritti universali (ad esempio, una donna non può essere libera nella vita pubblica e trattata come una schiava o in una condizione di minoranza nella sfera dell’intimità).
Maria Elena Gottarelli
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