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Jan
Alain Badiou è un filosofo nel senso pieno del termine. Allievo di Althusser e Lacan, critico di Deleuze, il suo pensiero è animato da un filo logico interno quasi matematico e richiede, per essere compreso, uno sforzo anacronistico.
Oggi più che mai, assuefatti a un ragionare sterile basato su dati prefabbricati, Badiou riesce con il suo pensiero a farci deragliare dal sentiero pre-tracciato, introducendoci nella tundra ribelle di un’autentica alternativa.
M.E.G: Le chiedo innanzitutto se si riconosce nella definizione di “filosofo dissidente”?
A.B: Penso di avere una posizione contraddittoria su questo argomento: da un lato, sono molto critico e se si vuole dissidente, nel senso che il mio pensiero è certamente in contrasto con l’ordine dominante; dall’altro, come filosofo mi considero più un classico, vale a dire fedele a tutto ciò che è sistema, coerenza, razionalità.
Devo molto a Sartre, tuttavia la mia tradizione filosofica di riferimento è la dialettica, in particolare il triangolo Platone, Cartesio, Hegel. Il mio tentativo filosofico è di pensare il pensiero attraverso le categorie della dialettica e ritengo tocchi alla filosofia fornire nuovi strumenti di pensiero, critici e creativi. D’altro canto, non posso negare di essere anche un dissidente laddove le mie proposte politiche rompono con la tradizione.
M.E.G: Come la sua proposta di un ritorno al comunismo. Si potrebbe dire che il comunismo è la concretizzazione politica del suo pensiero filosofico. Eppure, vediamo bene come le esperienze comuniste del ventesimo secolo siano tutte fallite e che attualmente i paesi governati dai partiti comunisti languono nella povertà o nella dittatura. Qual è, allora, la differenza fra la sua idea di comunismo e le esperienze avvenute sino a oggi?
A.B: Prima di tutto bisogna comprendere cosa intendo con “comunismo”: vale a dire la realizzazione di quattro principi fondamentali, secondo la proposta di Marx.
Innanzitutto, è necessario affermare la possibilità di un’organizzazione generale della società che non giaccia sotto la legge della proprietà privata dei mezzi di produzione. L’uguaglianza è impossibile in un mondo in cui la produzione è regolata dalla legge della concentrazione del capitale e della proprietà privata.
Il secondo principio riguarda la soppressione delle gerarchie sul lavoro. Va ripensato il lavoro per poter abolire l’ordine dominante che ha distribuito e gerarchizzato le funzioni lavorative.
E qui mi collego al terzo principio, ossia abolire tutte le gerarchie identitarie: quelle fondate su nazionalità, sesso, religione e così via. Anche queste sono contrarie al principio di uguaglianza.
Infine, ma non meno importante, la forza statale deve a poco a poco sparire per fare spazio a una nuova forma di organizzazione della società.
Questi quattro principi sono intrinsecamente legati gli uni agli altri e sono stati creati da Marx nel diciannovesimo secolo, durante quella che chiamo la prima tappa del comunismo. Il problema con le esperienze comuniste del ventesimo secolo consiste nel fatto che il primo principio (collettivizzazione della produzione) è stato concepito come separato dagli altri. L’abolizione della proprietà privata non è stata armonizzata con l’abolizione delle gerarchie e dello Stato, ma al contrario lo Stato è stato rinforzato fino a farlo diventare una sorta di autorità mostruosa in possesso della totalità dei beni della popolazione. Credo che in futuro si dovrà avviare la terza tappa del comunismo, in cui andrà riaffermata la compresenza dei quattro principi, cosa che oggi non si verifica in nessun paese cosiddetto comunista. Solo dalla coesistenza di questi quattro principi potrà nascere una società veramente egualitaria.
M.E.G: Vorrei capire meglio il senso del suo egualitarismo. Lei sostiene la necessità di abolire tutte le gerarchie, identitarie e professionali. Direi che il suo pensiero è un inno all’eguaglianza, tanto a livello politico quanto filosofico. Ciononostante la sua ultima opera, Je vous sais si nombreux, comincia con il pensiero dell’Altro. Ma come concilia il suo slancio egualitario con il rispetto dell’altro nelle sue libertà individuali e, appunto, nella sua alterità?
A.B: Prima di tutto non si deve confondere il concetto di uguaglianza con quello di identità. Si tende spesso a ritenere che possano essere considerati uguali unicamente coloro che sono identici, ma questo è un pensiero falso dell’uguaglianza. In realtà, la questione dell’alterità è interna alla questione dell’uguaglianza, dal momento che l’uguaglianza è autentica solamente nella differenza. Più precisamente, essa consiste nel trattare in maniera uguale posizioni soggettive del tutto differenti le une dalle altre, che si tratti di uomini e donne, ricchi e poveri, capi d’azienda e impiegati e così via.
Ci rifletta: non è difficile ritenersi uguali a coloro che sono già identici a noi, è difficile invece considerare uguale chi non lo è. Questa è la vera questione dell’uguaglianza. Non c’è contraddizione fra la questione dell’altro e quella dell’uguaglianza: la vera uguaglianza si gioca propria nella differenza.
M.E.G: Lei sostiene anche la necessità di abolire a poco a poco lo Stato. Concretamente chi potrebbe garantire il rispetto dei quattro principi di cui parlava se non lo Stato?
A.B: Non potrebbe essere che la figura dell’organizzazione collettiva stessa. Ma qui si va a toccare una questione delicata, che bisogna appunto inventare. Nondimeno, sono convinto che uno Stato diventi oppressivo e autoritario quando è separato dalla società civile e in fusione con il partito. Bisogna rifarsi a Marx, che immaginava una società senza potere statale ma al contrario capace di organizzarsi a tutti i livelli nella riunione collettiva. È nel contesto delle riunioni collettive che devono essere prese le decisioni riguardanti la comunità. Lo ammetto, è un lungo cammino.
M.E.G: D’accordo. Ipotizziamo allora che si riesca ad arrivare alla costituzione della società che ha in mente. Anche nella migliore delle società possibili, esisterà un certo grado di disaccordo dato che è inverosimile pensare a una comunità in cui regni una totale e perfetta armonia. Come si gestirebbe una situazione in cui qualcuno contesti uno dei principi fondamentali, per esempio quello della proprietà privata?
A.B: La discussione su questo tema accetta in sé che possano esserci delle minoranze in disaccordo, è assolutamente ineluttabile. L’idea di non dare spazio alle persone in disaccordo è del tutto negativa, perché distrugge il processo dialettico a cui, come le ho detto, sono molto affezionato. Così facendo si eliminerebbe semplicemente l’opposizione invece di trovare argomenti convincenti. La soppressione dell’altro finisce per diventare la soppressione della nostra stessa capacità inventiva e dialettica. Un’idea forte è un mezzo a nostra disposizione per convincere chi non la pensa come noi. Un processo democratico autentico non elimina il disaccordo, al contrario apre il campo alla discussione fra il vero e il falso. Al termine di un tale dibattito, alcune figure di spicco emergeranno grazie al riconoscimento della loro capacità di persuadere le persone con argomentazioni autentiche. Ho sperimentato personalmente la forza della dialettica durante i miei anni di attivismo nelle fabbriche e nei centri sociali.
M.E.G: Mi ha parlato poco fa di “processo democratico autentico”. Tuttavia lei è molto critico nei confronti del sistema democratico attualmente dominante, che definisce uno strumento nelle mani del capitalismo. Fino a che punto si considera un antidemocratico? Che cosa rappresenta, per lei, la democrazia?
A.B: Qui è importante capire bene che cosa critico sotto il nome di “democrazia”: non certo i principi di “Libertà Uguaglianza Fraternità”, o il dibattito all’interno della comunità di cui le ho appena parlato. Ciò che critico è piuttosto il sistema parlamentare e elettorale associato alla tesi della libertà di opinione, di cui il capitalismo si serve per fare la sua propaganda.
Guardi al capitalismo più da vicino e vedrà che non fa certo propaganda raccontando la maniera in cui funziona davvero. Non dice molto sul sistema della concentrazione del capitale, sui circuiti finanziari o sulle ineguaglianze di cui è responsabile. No, la sua campagna si basa piuttosto su ciò che di democratico c’è in lui. Su questo punto dobbiamo metterci d’accordo: se chiamiamo democrazia il desiderio egualitario, sono certamente un democratico.
La verità è che oggi non funziona così. Esiste un profondo legame di corruzione fra il sistema politico e il sistema economico attuali. La libertà di opinione, per esempio, è una gran bella cosa, se non fosse poi che tutti i media sono posseduti dagli stessi grandi gruppi finanziari. Rifiuto la democrazia come sistema ideologico del sistema capitalistico dominante! In un certo senso la democrazia è come il comunismo: anche lei deve essere reinventata.
Nel suo stato attuale non vedo come un mondo, in cui 64 persone possiedono quanto 2 miliardi d’altre, possa qualificarsi ugualitario o democratico. Viviamo in una società in cui: il 10% della popolazione detiene quasi la metà della ricchezza totale sul pianeta; il 35-40% è composto dalla cosiddetta classe media; la percentuale rimanente, vale a dire circa la metà della popolazione mondiale, non possiede nulla. È questa una democrazia? In realtà, se proprio vogliamo dare un nome al sistema mondiale dominante, dovremmo chiamarlo oligarchia, non democrazia.
La grande sfida del futuro consisterà nel fare in modo che quel 35-45% della classe media si distacchi dagli oligarchi per unirsi alla grande massa di nullatenenti. Ciò dovrà accadere a livello mondiale, dato che le grandi masse di poveri non si trovano da noi, in Occidente. Già Marx riteneva che il comunismo dovesse essere internazionale, ma per il momento la circolazione dell’idea di comunismo a livello globale non è che ai suoi albori.
M.E.G: La mia ultima domanda non torna alla filosofia. Nel suo libro Filosofia al presente sviluppa con Zizek il concetto di “inumano” come l’oggetto ultimo della filosofia, sostenendo la necessità di abbandonare l’Umanesimo per far spazio all’“inumano”. Mi può spiegare in termini più profani cosa intende per inumano e il senso del suo rifiuto dell’umanesimo?
A.B: Rifiuto l’Umanesimo laddove sottende l’esistenza astratta di un’essenza generale dell’uomo. Rifiuto l’idea che esista una figura generica dell’uomo e che tale figura generica debba rappresentare il nostro limite etico fondamentale. Penso che una tale proposizione resti al di sotto di un proposito puramente egualitario, dal momento che l’uguaglianza non è mai sostanziale e non consiste nel dire che ogni uomo è in qualche modo depositario di un’essenza dell’umanità.
L’uguaglianza deve al contrario costruirsi all’interno del processo politico stesso. Non esiste un’essenza dell’uomo: tutto è storico, differenziato, localizzato. Il processo comunista deve attraversare la differenza in una visione ugualitaria più ampia, che non riposa però sull’esistenza di un’essenza invariabile dell’uomo: l’uomo è molto cambiato nel tempo e cambierà ancora. È in questo senso che dico che il comunismo non rappresenta soltanto l’uscita dal capitalismo ma l’uscita da una vera e propria epoca storica che chiamiamo neolitica, fondata sui valori di famiglia, proprietà privata e Stato.
Ecco perché il comunismo rappresenta una sfida così difficile, perché è molto più di una semplice tappa all’interno dell’epoca neolitica in cui tuttora ci troviamo. Se si attacca la proprietà privata, la chiusura della famiglia o la costruzione dello Stato, si attacca qualcosa che è molto più vecchio del capitalismo, molto più radicato e più forte e che definisce in fondo l’Umanesimo moderno. L’Umanesimo moderno è però l’eredità dell’uomo neolitico. Il comunismo propone un’umanità altra e in questo senso, sì, è inumano. Ma si tratta di qualcosa ancora da costruire.
Maria Elena Gottarelli
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