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Oct
Un tempo il Belgio era additato come Paese dal debito in esplosione, ben peggio dell’Italia. Poi tutto è cambiato: in 14 anni dal 1993 al 2007 il debito è passato dal 140% del Pil all’84%. La ricetta del piccolo regno del Nord Europa, diviso tra fiamminghi e francofoni, è stata oggetto di studio di tanti economisti, da quelli del Fondo Monetario Internazionale alla prestigiosa Bertelsmann Stiftung tedesca.
«L’impressionante consolidamento di bilancio del Belgio è un esempio per altri Paesi», afferma l’Fmi in un recente rapporto. Proprio i costanti, notevoli avanzi primari (al netto del servizio del debito) intorno al 5-5,5% del Pil tra il 1994 e il 2003 sono state una delle ricette vincenti del Belgio. Naturalmente, ha giocato un ruolo anche il calo degli interessi sui titoli di stato belgi, dal 7% del Pil nel1992 al 4,8% nel 1998. Un fenomeno, quest’ultimo, legato agli stessi sforzi di consolidamento oltre che all’arrivo dell’Unione monetaria.
Altre misure introdotte dal Governo Belga riguardano lo spostamento della tassazione dal lavoro ai consumi (aumento IVA del 1,5%), l’introduzione della spending review nella PA e nella difesa, il conseguimento del patto di stabilità con le regioni senza toccare il welfare e l’assistenza sanitaria, la soppressione delle sovvenzioni pubbliche alle imprese. Non sono mancante neanche vere e proprie operazioni di restituzione dei prestiti, grazie alla vendita di beni pubblici (compresa parte dell’oro in possesso della Banca Centrale belga): tra il 1996 e il 1997 il Belgio ha restituito ai creditori 9 miliardi di euro.
Poca roba, in termini assoluti (il debito belga di quegli anni era intorno ai 240 miliardi di euro), ma un segnale che, insieme agli avanzi primari, ha migliorato ulteriormente la posizione belga sui mercati finanziari, favorendo un’ulteriore riduzione dei tassi e dunque dei costi del servizio del debito. Un circolo virtuoso. Nonostante tutti questi interventi di riduzione progressiva del debito pubblico l’economia del Belgio non ha subito alcun strangolamento, anzi il Pil è cresciuto al ritmo medio del 2%.
Veniamo all’Italia: il Fiscal Compact, approvato dal Parlamento Italiano, inserito nella Costituzione Italiana nel 2012 ed in vigore dal 1/1/2013, obbliga anche l’Italia a ridurre il rapporto del debito pubblico sul Pil.
Ridurre il rapporto debito/PIL, non con l’ambizione di uguagliare la performance eccellente del Belgio ma perlomeno di riportare il rapporto dal 132 % al 100% in 10 anni, è possibile tramite operazioni incisive di risanamento della spesa pubblica e di incremento delle entrate che vanno allineate a due obiettivi fondamentali:
1) perseguire un avanzo primario netto del 4 % sul Pil di 1700 mld, pari a 68 mld/anno, per coprire gli interessi e stabilizzare il debito accumulato di 2200 mld. Obiettivo da raggiungere tramite l’introduzione di un’efficace “spending review” nella spesa pubblica, la soppressione delle sovvenzioni alle imprese, la privatizzazione degli enti pubblici economici, la vendita di quote del demanio pubblico e la lotta contro l’evasione fiscale; 2) perseguire un incremento del Pil nominale (al lordo dell´inflazione) del 3%,pari a 51 mld/anno per raggiungere il valore del debito in 10 anni e far scendere il rapporto debito/Pil al 100%. Obiettivo da raggiungere tramite la realizzazione di un sistema di collaborazione tra imprese, banche, PA e potere giuridico per promuovere con maggior forza d’urto la penetrazione nei mercati delle imprese, l’emissione di provvedimenti atti a favorire la fusione tra imprese piccole e medie per creare solidi campioni internazionali in grado di affrontare le turbolenze dei mercati e di sostenere l´occupazione.
Questi obiettivi e le sottese azioni di riduzione del rapporto debito pubblico/Pil sono facilitati ora che gli interessi da pagare sui titoli di stato sono bassi grazie al “Quantitative Easing”, tuttavia devono essere fatti propri dalla classe politica al governo (e del prossimo governo dopo le elezioni) in quanto riflettono decisioni improntate sia all’assunzione di responsabilità verso il nostro Paese (e non alla salvaguardia dei consensi elettorali) sia al comportamento etico di garantire un certo livello di sicurezza sociale e di benessere alle nostre generazioni future.
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