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Oct
Nel momento in cui scriviamo, le forze del Governo siriano di Assad, con la Russia e l’Iran, tendono a separare in due sacche ciò che rimane del Daesh-Isis, che ha ormai perso circa il 70% del suo territorio in Iraq e il 51% di quello detenuto in Siria. L’operazione anticaliffale ha avuto successo, il 5 Settembre u.s. le “Tigri” dell’Esercito Arabo Siriano di Assad hanno aperto l’autostrada Sukhna-Deir Ezzor, sostenute da 80 sortite delle Forze Aerospaziali Russe. Oggi poi, mentre scriviamo, l’otto Settembre, i militari di Assad stanno preparandosi a superare l’Eufrate nell’area di Deir Ezzor. La pressione turca sui curdi, poi, che sono entrati per primi a Raqqa e sono anche i veri protagonisti nelle azioni delle forze alleate con gli Usa, è sempre significativa; tanto che Ankara ha già bombardato i curdi alla fine dell’Aprile scorso nel nord della Siria e nell’area di Makhmour, vicino a Mosul. Ankara sta allora facendo tre guerre: contro i curdi, naturalmente, perché non si materializzi la prospettiva dello Stato curdo che gli Usa hanno promesso alle varie loro formazioni amiche, soprattutto nei cantoni del nord-est siriano, dove i curdi combattono ancora i “ribelli” turcomanni armati dai Servizi turchi. L’obiettivo strategico di Ankara è, con ogni evidenza, quello di bloccare e contenere i curdi a Nord Est della Siria per evitare che essi si pongano in continuità con le aree curde già interne alla Turchia.
La seconda guerra turca, ma meno importante, è contro l’Isis-Daesh, ovvio, ma certamente, all’inizio, il “califfato” è stato uno strumento di “guerra indiretta” sia contro i curdi che contro i siriani di Bashar el Assad. Erdogan ha pensato all’inizio di frazionare la Siria, prendersene la parte sunnita, utilizzarla come parte iniziale del suo nuovo Califfato, quello che unirà tutte le etnie turkmene o affini, fino allo Xingkiang cinese. Oggi, il leader turco, che proviene dalla “Fratellanza Musulmana”, ha accettato temporaneamente l’unità siriana sotto la dinastia alawita degli Assad, in base ad una nuova alleanza con Mosca. Che non vuole tutelare ad infinitum la Siria, Mosca, ma richiede una egemonia nell’asse che va da Tartus-Latakia, sul Mediterraneo, fino a Idlib. Si costituisce così, sotto il potere russo, l’asse Beirut-Damasco-Teheran, che Mosca protegge e Ankara non ha alcun motivo di contrastare. Terza guerra di Ankara, quella, già finita, contro i russi e gli iraniani. I turchi non vogliono gli sciiti iraniani in guerra ai loro confini, non desiderano che l’asse Mosca-Teheran si rafforzi ulteriormente, vogliono diventare i soli mediatori possibili per il ridisegno del Grande Medio Oriente. Con o senza gli Usa e la NATO. All’inizio, la dirigenza turca ha pensato che la distruzione del regime degli Assad fosse un obiettivo facile, poi l’intervento russo ha cambiato l’equazione strategica di Ankara e, oggi, sia la Turchia che la Federazione Russa pensano di stabilizzare la Siria facendo entrare direttamente nel quadrante siriano il Tagikistan e l’Uzbekistan. Meglio, per la Turchia, un condominio con Mosca che il vuoto strategico dell’Occidente. Tra poco, infatti, vi sarà un altro round delle trattative con i cosiddetti “ribelli” ad Astana. Due Paesi alleati di Mosca, ma la Russia non ha nessun interesse, lo ripetiamo, nel “tenere” tutta la Siria.
I Decisori della Federazione vogliono solo quello che hanno già avuto: bloccare la sequenza delle “primavere arabe” e diventare punto di riferimento inevitabile per l’area che va dall’Asia Centrale fino al Mediterraneo. Peraltro, la recentissima cessazione immediata del programma coperto della CIA Timber Sycamore per armare i jihadisti “moderati” dell’Esercito Democratico Siriano e di altri gruppi similari, che hanno le loro basi di addestramento in Giordania e in Turchia, ha causato una reazione immediata da parte dei jihadisti “buoni”, che hanno subito minacciato di passare ad Al Qaeda, che probabilmente utilizzerà la fine del “califfato” di Al Baghdadi per ricominciare a fare attentati terroristici in giro per il mondo, al fine di allentare la pressione in Siria e impedire altre azioni militari occidentali in tutto il Medio Oriente. La Turchia potrà allora attendere tranquillamente l’uscita dei russi dal cantone di Afrin, al confine con l’Iran; e Mosca non è comunque interessata a difendere fino in fondo i curdi, asse ormai unico della presenza Usa in Siria. Peraltro, è iniziata l’eliminazione mirata dei capi di Al Qaeda, in Siria e nell’Iraq dell’ormai ex-“califfato”. Abu Nasibah Al Tunisi, un capo della organizzazione fondata da Bin Laden, è stato, mentre scrivo, abbattuto a Beirut. Ecco, Washington ha perso un alleato, ovvero la Turchia, sostenendo i curdi in Siria e Iraq. Mosca ha invece guadagnato il supporto fondamentale della seconda forza militare dell’Alleanza Atlantica, Ankara, mentre gli Stati Uniti sembrano non avere una strategia a lungo termine, divisi come sono tra una richiesta di mettere fuori gioco Assad, sostenere la cantonalizzazione dei curdi, eliminare definitivamente il solo “califfato” di Al Baghdadi. La guerra è costata agli Usa in media 13,2 milioni di dollari al giorno, con 68 Paesi che sostengono ufficialmente la sua coalizione, mentre la Federazione Russa vuole unicamente sostenere l’Esercito Arabo Siriano di Assad dopo la riconquista di Aleppo, per controllare il corridoio che va dall’Iran verso l’Iraq fino alla Siria e al Libano. Quindi, sul piano geopolitico, la Siria rimarrà unita, nel prossimo futuro, sotto il comando di Bashar el Assad; avrà come primo sponsor geopolitico la Federazione Russa; accetterà un livello di influenza turca al proprio interno che non andrà oltre certi limiti, nella misura in cui Bashar el Assad integrerà nei suoi apparati la maggioranza sunnita e permetterà lo sviluppo dei progetti energetici del Qatar, dell’Oriente russo, dell’Iran, degli Emirati, che favoriscono tutti la Turchia come hub energetico globale.
Ma quanto costa ricostruire la Siria? Per la Banca Mondiale, ci vorrebbero 220 miliardi di Dollari Usa. Il regime di Assad, utilizzando alcune normative prebelliche, finanzia la ricostruzione di alcune città periferiche e zone agricole, per favorire la rapida ripopolazione del territorio siriano, dove almeno la metà degli abitanti è fuggita dalla guerra. Per non parlare delle infinite vittime civili. 11,5 milioni di civili allontanati dalle loro case e 12,2 milioni di siriani, che hanno necessità di un aiuto umanitario, per non dimenticarsi delle 440.000 vittime civili. Una tragedia senza nome. Sarà difficile, per il popolo siriano, pur con tutte le colpe dell’attuale dirigenza alawita, dimenticarsi degli amici e dei nemici, quando la ricostruzione sarà visibile. La Fiera Internazionale di Damasco, chiusasi recentemente, ha visto la partecipazione di 43 nazioni. Sarà certamente una fortuna per il Libano, che farà da mediatore inevitabile della ricostruzione. Dovrà comunque trasportare 30 milioni di tonnellate di merci all’anno; ma la Tripoli libanese diverrà presto un porto collegato alla Silk Road cinese; esso è stato infatti già in parte acquistato da una ditta cinese di trasporti. La Cina è poi già, malgrado tutto, il maggiore partner commerciale della Siria. Per non parlare della ricca diaspora siriana, che si è già incontrata in Germania nel Febbraio 2017 e che sta muovendo investitori internazionali che, in questo caso, passeranno principalmente dalla Giordania, che ha già generato finanziamenti Usa in Siria per 240 milioni. Con il 60% della popolazione siriana rimasta sul terreno disoccupata, e quella occupata lo è comunque con salari da fame, sembra impossibile innescare un meccanismo virtuoso di crescita economica.
In questi casi, vale solo l’aiuto estero, come accadde per il Piano Marshall. Ciò vuol dire semplicemente che un Paese trasferisce ad un altro, sconfitto, le proprie industrie mature per fare in modo che compri il suo export, che intanto finanzia. Ma le terre arabili siriane sono in parte, ancora, ad Est, nelle mani del “califfato” di Al Baghdadi e, soprattutto, nella disponibilità delle comunità curde, che hanno con Damasco rapporti evanescenti. L’Iran ha recentemente siglato contratti con il governo siriano sui fosfati, le telecomunicazioni, il petrolio e il gas naturale, oltre ad estendere il credito a Damasco da 6 a 10 miliardi di Usd durante il conflitto. Questo riequilibra, per la dirigenza alawita, l’offerta turca, che è già quella di ricostruire, a spese di Ankara, le strade tra i due Paesi, utilizzando anche finanziamenti sauditi. Quindi, per dare una rapida sintesi: gli Usa hanno mantenuto le loro truppe nel Nord-Est della Siria per sostenere i curdi e le tribù sunnite contro l’Isis-Daesh. Recentemente, nel Marzo scorso, i tre capi militari di Usa, Russia e Turchia si sono riuniti ad Antalya. Sulla base delle scelte discusse, la Turchia non farà parte della forza che prenderà Raqqa, come è infatti avvenuto, mentre i militari di Ankara si fermeranno alle porte di Al-Bab. La Russia ha poi bloccato, a Damasco, il tradizionale scenario dello “stato fallito” arabo e islamico, come è accaduto in Libia. Mosca ha inoltre bloccato ogni tentativo della Turchia di entrare nei territori curdi, dato che erano già stati liberati dal Daesh-Isis. Mosca imporrà, comunque, la sua agenda a Damasco per le trattative, tra Astana e Ginevra, con le varie congerie di “ribelli”. La Russia non vuole soprattutto la ripetizione del suo Afghanistan, la guerra e la pace impossibili e inutili. Mosca, peraltro, non ha mai interferito nelle tensioni tra Israele, Hezbollah e le forze siriane ai confini delle alture del Golan. Gerusalemme, peraltro, ha avuto spazio libero per bombardare le postazioni siriane e del “partito di Dio” libanese ai suoi confini, ma naturalmente lo Stato Ebraico non avrà mano libera per colpire le centrali primarie di Hezbollah e dell’Esercito Arabo Siriano di Assad.
Al Qaeda ha poi ancora numerosi elementi “coperti” nel Nord e nel Sud della Siria; il “califfato” può risorgere, l’equilibrio tra le forze in campo serve anche, in qualche modo, a Gerusalemme. E la garanzia è russa. Arabia e Qatar non pagano più bene i vari jihadisti siriani, poiché questi hanno fallito nell’obiettivo primario, destituire Assad. Ma serve ancora un regime change in Siria? È possibile che le potenze sunnite del Golfo si attardino in questo progetto, mentre, magari, potrebbero inventarsi un nuovo “schermo” per il jihad globale, magari utilizzando la vecchia rete qaedista. Nessuno, comunque, ha chiesto ad Hezbollah e all’Iran di lasciare il territorio siriano per favorire un piano di pace. Sia le forze di Bashar el Assad e quelle russe non sono tali da eliminare alla radice le reti, ancora presenti, del “califfato” di Al Baghdadi. L’Iran serve ancora, e molto. Ed è presente in Siria dal 1982, ma è stato Assad a chiedere l’aiuto di Hezbollah nel 2013 e l’Iran sostiene il “partito di Dio” libanese con le sue armi più avanzate fin dal 2006, in esplicita funzione antisraeliana. Teheran ha chiaramente vinto sul Qatar e i sauditi sul terreno siriano, ma ci sono ancora discussioni tra Damasco e Teheran per la base navale nel porto petrolifero di Banias, a 55 chilometri da Latakia. Israele, oggi che la tensione in Siria si allenta, teme un attacco del “partito di Dio” in Galilea e, ancora, nella vecchia area che Hezbollah occupò nel 2013, intorno ad Al-Quseyr. Gli Usa o Mosca gestiranno e ne saranno capaci queste eventuali tensioni?
Marco Giaconi (Direttore di ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici di Roma)
(fonte: AFFARI ESTERI RIVISTA TRIMESTRALE ANNO XLIX – AUTUNNO 2017 – N. 182)
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