06
Jul

Scandagliamo, con Renaud Camus, il ruolo eminentemente politico della Letteratura, laddove “ad essa spetta la riappropriazione dello scettro caduto della verità”. Scrittore tormentato dalla fine del suo mondo, non si può negargli il merito di non aver paura di dire quello che pensa e di dargli un nome. Per le sue idee spesso estreme, è stato accusato di razzismo, di xenofobia e di partigianeria con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen.
Nel 2000, a seguito di una sua dichiarazione in Campagne de France a proposito della presunta ultra-rappresentazione della religione e della cultura ebraica all’interno di un’emissione su France Culture, fu accusato di antisemitismo. Si parlò addirittura di Affaire Camus e l’intellettuale venne messo alla gogna dai media. In quell’occasione, fra i pochi a prendere le sue difese ci furono Alain Finkielkraut (noto intellettuale francese di origine ebraiche) e Elisabeth Levy, che oggi animano insieme il programma radiofonico L’Esprit de l’Escalier su RCJ.
Scrittore infinitamente prolifico, è l’autore di romanzi a sfondo storico, cronache di viaggio e numerose elegie. A partire dagli anni ’80, Renaud Camus tiene inoltre un diario quasi giornaliero, nel quale scrive la verità, cosi come la vede, così come la vive, alternando uno stile quasi telegrafico a descrizioni liriche della remota campagna in cui abita e dei suoi numerosi viaggi all’estero. Dal 2002 è presidente e ideatore del partito dell’In-nocenza (dal neologismo non-nocenza, “che non nuoce”) e ideatore del termine Grand Remplacement (che in Italiano può essere tradotto con “Grande Sostituzione”, “Grande Rimpiazzo” ma che ho preferito lasciare in Francese all’interno dell’intervista per non comprometterne la sfumatura).
Signor Camus, lei è uno scrittore, un poeta e anche, a tutti gli effetti, un politico (nel 2002 ha infatti fondato un partito, il partito dell’In-nocenza). Sarebbe esatto dire che la sua politica è una conseguenza della sua arte, e che la sua arte è un’altra forma di Resistenza? Insomma, qual è il rapporto (se esiste) fra il suo essere scrittore e il suo essere politico?
Oh, un rapporto molto stretto. Ho sempre pensato che il compito di uno scrittore sia di portarsi sistematicamente ai punti ciechi di una società, di tutto ciò che inorridisce gli occhi (e, eventualmente, il cuore), ma che non può essere detto, pena la morte civile. Alla letteratura, talvolta dopo lunghe deviazioni nei più estremi campi del formalismo, perviene l’eredità del reale. Abbiamo creduto che tale eredità fosse confinata alle scienze umane, ma queste hanno miseramente fallito: non soltanto non sono state capaci di avvertire i popoli dei grandi fenomeni che stavano per accadere, ma nel momento stesso in cui tali fenomeni accadevano -crollo del sistema scolastico, crescita dell’insicurezza, massacro dei paesaggi, de-culturalizzazione, de-civilizzazione, dilagare del flusso migratorio- si accanivano a negarli
In esse è consistita la grande potenza negazionista [ndr. questa traduzione non tiene conto della variante francese utilizzata da Camus “denegationiste”, dove il prefisso “de” serve a distinguere questo tipo di negazionismo da quello di uso più corrente, vale a dire il negazionismo legato alla Shoah], come se avessero ricevuto in missione di rassicurare i popoli che nulla stesse accadendo, che perfino quello che stava accadendo non stesse accadendo davvero, che i popoli erano ormai usciti dalla Storia. Pertanto, per effetto di un giro completo della spirale del senso, è toccata alle Lettere la riappropriazione dello scettro caduto della verità.
La sua amicizia con Roland Barthes non è un mistero. Tuttavia mi è sembrato di ritrovare, nella sua opera vasta e poliedrica, una sorta di richiamo sotterraneo ma sempre vivo al grande pensatore strutturalista, dalla prefazione di Tricks a Etc. (che ricalca lo stile di Fragments d’un discours amoureux), dalla passione per la fotografia a quella per la semiotica. Fino a che punto crede che l’opera di Barthes abbia influenzato la sua?
Oh, in massimo grado! Una briciola del suo pensiero è bastata a nutrire buona parte del mio. Così è stato per la bathmologia (cfr. bathmologie), la scienza dei gradi del linguaggio, che Barthes ha inventato ridendo in un gioco di parole e che è diventata il cuore della mia interpretazione del mondo e della storia. Sono persuaso che essa soltanto, la bathmologia, la spirale del senso appunto, sia capace di render conto della complessità post-moderna, cioè post-cataclismatica. Ne abbiamo appena visto un esempio con la letteratura che recupera l’eredità del reale abbandonata dalle scienze umane- penso a Houellebecq. Ed eccone un altro: che quell’antirazzismo nato dai campi di sterminio e adducente tutta la propria legittimità dal “mai più questo”, abbia finito per partorire una società dove in certe scuole la Shoah non può più essere insegnata e che gli Ebrei rifuggono a migliaia. O meglio: le femministe difendono il burqa e trovano delle giustificazioni agli stupratori perché appartengono per essenza alla razza degli innocenti.
Tutto questo non fa che rimandare a quella che ho già chiamato La seconda Carriera di Adolf Hitler: la sua carriera al contrario, come in una tela di Baselitz- meno direttamente criminale della prima, senza dubbio, ma dalle conseguenze storiche ancor più vaste, dal momento che i popoli europei dovranno proprio ad essa la propria sommersione, colonizzazione e infine sparizione in quanto popoli.
Grand Remplacement, appunto: non una teoria, ma un nome per un fenomeno. Può spiegare brevemente ai nostri lettori di che tipo di fenomeno storico si tratta? E in che senso esso ha come condizione necessaria ma non sufficiente l’Anti-razzismo?
Faccio riferimento al semplice fatto che per quasi quindici secoli l’Europa è stata abitata da popoli quasi perfettamente stabili, e che nel giro di due o tre generazioni essi sono stati sostituiti da altri popoli e da altre civilizzazioni. L’antirazzismo della prima ora apriva alla giustizia fra le razze. Quello attuale erige a dogma il fatto che esse non esistano. Bisognava, infatti, che non esistessero perché la sostituzione potesse avere luogo, e soprattutto perché fosse impossibile opporvisi (opporsi, appunto, in nome di che cosa?).
Il suo ultimo libro, uscito quest’anno, s’intitola “Dernière chance pour la France”, ultima chance prima del Grand Remplacement. Ebbene, oggi la Francia sembra essersi espressa nettamente a favore del Grand Remplacement da lei tanto osteggiato: Macron ha stravinto sia alle presidenziali che alle legislative. Stante così le cose, cosa c’è al di là della Dernière Chance? Come proseguire l’ideale di rivolta e di rifiuto?
Vi erano sottintese politica, elettorale, nella mia ultima chance. Può darsi che il Grand Remplacement non abbia ancora completamente vinto, ma se qualche cosa può ancora opporvisi non potrà più essere all’interno del quadro costituzionale, legale, elettorale del sistema attuale. Ormai è talmente avanzato da essere già istanza di decisione e di giudizio (anche e in primo luogo di se stesso). Grazie ai sostituenti, i sostituzionisti si sono assicurati il potere, almeno fino a quando non verranno, essi stessi, sostituiti.
Quanto a Macron è la perfetta incarnazione di ciò che intendo per sostituzionismo globale. Si trova all’esatto punto di convergenza fra le due genealogie che costituiscono tale ideologia: la rivoluzione industriale nel suo stadio tardivo, taylorista, fordiano, e l’antirazzismo ormai giunto al suo stato senile, che offre alla prima rispettabilità ideologica e struttura. Lo stiamo già vedendo instaurare in Francia ciò che io chiamo la “Davocrazia diretta” “il governo di Davos” [ndr. Davos: piccola città a est della Svizzera dove si riuniscono, ogni anno, i massimi capi di Stato, di governo e delle imprese per il Forum Economico Mondiale], il che implica la neutralizzazione della casta politica ormai inutile. Beninteso il popolo, che la destava, ne è ben contento.
Passiamo a un altro tema scottante: l’Europa. Sempre in Derniere Chance, lei scrive: “L’Europe, selon moi, il ne faut pas la quitter, il faut s’en emparer” (L’Europa, a mio avviso, non dobbiamo lasciarla, dobbiamo impossessarcene). A questo proposito prospetta un’Europa Federale o anche, con parole sue, “Un’Europa delle Nazioni”. Può approfondire questo concetto, con una specifica su come, idealmente, si potrebbe perseguire questo scopo partendo dalla situazione in cui ci troviamo a tutt’oggi?
Penso piuttosto a un’Europa confederale, con capitale a Vienna, città imperiale senza impero, al punto di convergenza fra le quattro Europe, piuttosto che a Bruxelles, dove, in effetti, la situazione prettamente politica è bloccata essendo il sistema al tempo stesso parte in causa e giudice di se stesso. Bisognerà passare, per finirla prima di tutto con l’invasione, a un puro rapporto di forze-non mediatizzato- il che non vuol dire necessariamente militare o violento, grazie a Dio. L’antinomia prenderà una svolta geografica. I paesi del patto di Visegrad costituiscono un primo nucleo di resistenza: bisogna rinforzarlo e ampliarlo.
Se ho capito bene, lei usa il Grand Remplacement come categoria per interpretare il mondo. Il termine le è costato tante critiche quanta fama (Grand Remplacement viene infatti spesso utilizzato in Francia nei dibattiti sull’immigrazione). Al di là delle accuse di razzismo che spesso le vengono mosse, mi chiedo se il Grand Remplacement non sia, in fin dei conti, semplicemente un modo diverso di enunciare il primo principio della termodinamica: tutto si trasforma. Mi chiedo cioè se lei non scambi un fenomeno della modernità da avversare con una semplice caratteristica del dinamismo universale: qualsiasi ente per esistere, deve mutare- si tratti di un popolo intero o di un individuo soltanto- così che tale mutamento implicherebbe la sostituzione di qualcosa con qualcos’altro. L’Identità è, insomma, di per se stessa in cammino. Come ribatte a una simile critica?
La fecondità del tema del Grand Remplacement tiene alla sua plasticità. Da una parte si declina in modo da delineare i tre protagonisti essenziali del dramma europeo odierno: sostituiti, sostituzionisti, sostituenti. Dall’altra, soprattutto, conduce al concetto di sostituzionismo globale, col quale designo al tempo stesso uno dei due maggiori totalitarismi oggi all’opera e l’essenza stessa del contemporaneo. Nulla in effetti vi è che sostituzione, rimpiazzo, imitazione: della pietra dall’agglomerato, della letteratura dal giornalismo, del normale dal low cost, del mondo dal sito turistico, dell’originale dal privo di origini, della città e della campagna dalla periferia universale, dell’indigeno dall’allogeno, della borghesia dalla piccola borghesia, dell’uomo dalla donna, dell’uomo dall’uomo, dell’uomo dalla macchina, dell’umanità dalla Materia Umana Indifferenziata (MUI).
Flusso incessante, termodinamico, mutazione universale, certo: è anche il punto di vista di Sirus, di un dio à la Teilhard de Chardin e di un taylorismo divenuto folle. Non restano ormai che la civilizzazione, la dignità dell’uomo, la sua stessa sopravvivenza a richiamarci a un grande rifiuto e alla riaffermazione dell’ordine eminentemente umano.
Maria Elena Gottarelli
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply