24
Jul
Sono stata accolta da Alain Finkielkraut nella sua casa a Parigi, che si trova vicino ai Giardini del Lussemburgo, nel quartiere storico di Saint-Germain-des-Prés: non è difficile immaginare perché uno scrittore abiti qui, vista la quantità di librerie storiche e di bistrò che vantano l’esclusiva di avere ospitato fra i più grandi artisti e filosofi del Novecento, da Peguy a Sartre passando per Prevert e Quentin.
Certo ci si sente in soggezione trovandosi in questo atrio dai muri di marmo e dalle colonne in stile corinzio. Oltre la grande porta a vetri che mi separa dall’entrata c’è un gran un tappeto rosso che sembra la coda di un serpente che sale l’ampio scalone fin su in cima, all’ultimo piano: là sono attesa fra qualche minuto.
Alain Finkielkraut mi apre la porta vestito di tutto punto, immagino che abbia avuto qualche impegno più ufficiale durante la giornata e questa supposizione è confermata nel momento in cui mi dice “Scusi, oggi sono molto stanco e non sono sicuro di poter reggere un’altra intervista”. Bene. Gli consegno la confezione di Cantucci Italiani che mi sono fatta spedire apposta sperando di conquistarmi così il suo favore. Forse spinto dal mio gesto, quest’uomo imponente e delicato sembra addolcirsi un po’ e mi accompagna in un luminoso salone, in cui pare che i muri non esistano e che siano sostituiti da libri.
Libri dappertutto, sulle pareti, sull’ampio tavolo da lavoro, perfino per terra. In questo tempio letterario l’intervista comincia molto prima che io riesca ad accendere il registratore, a tirar fuori il mio quaderno di appunti, molto prima che io sia pronta. Alain Finkielkraut mi parla di Renaud Camus, che ho appena intervistato e che anche lui ha incontrato qualche giorno fa in occasione della sua emissione Replique. Non avevo previsto di iniziare con Renaud Camus, ma d’altra parte mi dico che la mia prima disciplinata domanda può aspettare, lo lascio parlare: adesso è un fiume in piena.
AF: […] Pensano che sia Hitler, che sia sul punto di scrivere un nuovo Mein Kampf, senza d’altra parte avere letto una riga di ciò che scrive. Questo è un enorme problema con le librerie francesi, i librai al giorno d’oggi sono molto più attaccati all’ideologia che alla letteratura, quindi difendono il politicamente corretto e una certa rettitudine ideologica senza affatto interessarsi alla qualità e al valore letterario: praticano la censura senza il benché minimo scrupolo.
(Prosegue per dieci minuti abbondanti raccontandomi di come conobbe Camus, di come e perché lo difese durante il primo Affaire e dell’origine della loro amicizia).
AF: [Dopo che Renaud Camus venne abbandonato perfino dai suoi editori], cercai di mantenere un contatto con lui e nonostante divergenze reali fra di noi, sento di avere un debito intellettuale nei suoi confronti, vale a dire che più lo leggo e più imparo delle cose. Penso che sia un grande scrittore, non solo perché ha un buon stile, ma anche perché possiede un’acutezza di visione e di riflessione che non trovo altrove. Perciò mi dico: questo debito che ho verso di lui lo voglio pagare a mio rischio e pericolo restandogli fedele.
(Il tema della fedeltà tornerà verso la fine dell’intervista, questo termine gli è evidentemente caro)
MEG: Dopo avere ascoltato la storia dell’amicizia fra lei e Renaud Camus, vorrei porle una domanda su di lei in prima persona. Alain Finkielkraut, pensatore e critico della realtà storica in cui viviamo, su di lei sono state date (e lei stesso si è dato) molteplici definizioni: da Ebreo Immaginario a Cassandra dei nostri giorni, ha detto di essere liberale, socialista e conservatore al tempo stesso. Penso però a quello che Milan Kundera ha detto di lei amichevolmente: “Alain Finkielkraut, l’homme qui ne sait pas ne pas reagir” (Alain Finkielkraut, l’uomo che non sa non reagire). È vero? E soprattutto, cosa vuol dire, per lei, oggi, “reagire”?
AF: Ah, questa è una domanda che molto raramente mi viene posta dai giornalisti. Conservatore, Socialista e Liberale: si tratta di un’espressione che ho preso in prestito da Kolakowski nel mio tentativo di iscrivermi nel pensiero dell’Europa centrale, che ha un’esperienza storica inestimabile, avendo conosciuto entrambi i totalitarismi. Ciò dona ai suoi intellettuali una lucidità che raramente si ritrova nei pensatori francesi. E’ gente che ha visto il proprio mondo capovolgersi e che ha compreso la segreta affinità che può esserci fra le diverse grandi tradizioni politiche dell’Europa moderna. Queste prove sono state risparmiate agli intellettuali francesi che restano così prigionieri delle grandi opposizioni e che non sanno superarle, non riescono cioè a vedere ciò che queste modalità di pensiero possono avere in comune. Perciò mi sembra che vi siano effettivamente una verità del conservazionismo, una verità del liberalismo e una verità del socialismo.
MEG: E non percepisce delle contraddizioni fra i tre?
AF: Ci sono delle contraddizioni, ma la verità del conservazionismo appare alla luce della follia totalitaria e della volontà di creare un uomo nuovo, di rompere con il mondo antico. Abbiamo visto il punto a cui ciò ci ha portati e questa esperienza deve invitarci alla prudenza, a fare meno affidamento sulla nostra ragione e a riconoscere la saggezza che può esserci nei nostri antenati. Il totalitarismo invita alla modestia e la parte di verità del conservazionismo è precisamente l’apprendimento di tale modestia. Per il liberalismo: una società in cui l’iniziativa privata è completamente impedita per non importa quali motivazioni, marcisce nella stagnazione. Ecco la verità del liberalismo. Quanto al socialismo, consiste nell’idea che il capitalismo deve effettivamente poter essere gestito e controllato ed è necessario poter assicurare una certa ridistribuzione della ricchezza. Ci sono dei limiti al regno della merce ed è assurdo mettere in discussione le conquiste sociali che sono state fatte in nome della critica al comunismo: la social-democrazia e il comunismo non sono la stessa cosa. È su queste basi che posso effettivamente definirmi conservatore, liberale e socialista. E rimpiango che la saggezza profonda di Kolakowski non abbia avuto sufficiente eco all’interno della politica francese, per la quale l’opposizione destra-sinistra è insuperabile.
MEG: Macron sembra in qualche modo averla superata…
AF: Questa è una questione molto interessante: nel momento in cui Macron dice che questa opposizione è oggi caduca, la sostituisce con che cosa? Con l’opposizione di conservazionismo e progressismo! Di conseguenza il conservazionismo rimane per lui il nemico. E d’altra parte dice che stiamo vivendo una rivoluzione (“rivoluzione” in realtà più tecnologica che veramente politica). È come se non avesse trattenuto la grande lezione di modestia che il Novecento avrebbe dovuto impartirgli…
Ora, per venire a Kundera: ha avuto parole molto gentili quando ha detto “Alain Finkielkraut, l’uomo che non sa non reagire” e d’altra parte nel testo che ha scritto e pronunciato in quell’occasione, dà proprio l’esempio di Renaud Camus. Dice che Alain Finkielkraut non ragiona per nulla in termini di strategia, cosa che a me pare vera. Ne fui molto toccato. E d’altra parte Kundera ha dato prova con questa frase di essere un vero romanziere, vale a dire un uomo che s’interroga sulla singolarità degli individui e che ama esprimerla. Se vuole, Kundera è esattamente tutto il contrario dell’uomo che non sa non reagire, ma non essendo un ideologo non erige la sua condotta a modello universale: vede in me qualcuno di completamente diverso da lui e ciò lo intriga, lo diverte e quando gli si domanda di scrivere un piccolo testo che mi riguarda, vuole esprimere questa mia singolarità. Non mi definisce per mezzo delle idee che condividiamo, ma piuttosto per mezzo di un modo di essere che gli è estraneo. Kundera non ha mai voluto essere uno scrittore impegnato perché non voleva che il suo impegno fosse di ostacolo alla comprensione della sua opera. Ha rifiutato il titolo di intellettuale per essere percepito e compreso esclusivamente come un romanziere. Vede che io ho l’attitudine opposta, non la condanna, la descrive. E in ciò ha ragione: che io non penso naturalmente. Perché il mio pensiero si metta in azione, è necessario che un evento faccia irruzione in me. Non penso sulla base di un gusto, ma sotto l’effetto di uno shock. È Proust che diceva: “le idee sono dei surrogati dei dolori”. Non ho scritto La Ricerca del Tempo Perduto, ma quest’immagine del pensiero mi si confà perfettamente. Detto altrimenti: la mia grande domanda filosofica non è il Che Cos’è? (la Virtù, il Coraggio, la Bellezza…), che è d’altra parte la questione filosofica iniziale, ma è la domanda: Cosa succede? Spero di non reagire stupidamente, ma mi rendo conto che il mio pensiero è reattivo nel momento in cui gli eventi mi forzano a riflettere e alla fine dei conti fare filosofia per me consiste nel diagnosticare il presente.
MEG: Veniamo ora a un altro aspetto della sua esperienza di intellettuale impegnato in politica: la sua partecipazione alle proteste di maggio 68, rispetto al quale utilizza toni spesso contrastanti. Prendiamo L’Identità Infelice, dove, riferendosi appunto al ’68 scrive: “Nulla scappava alla critica, ci inebriavamo di ripensare tutto, di riprendere tutto, di rifare tutto”. Dopo solo qualche pagina, però scrive, “Un grande cambiamento oggi non è più all’ordine del giorno”. Che cosa è accaduto? L’assolutismo che avete combattuto è forse rientrato dalla finestra sotto mentite spoglie? E anche: c’era già secondo lei, annidato in quella rivolta, à il germe di un male futuro?
AF: Senta… ci siamo davvero battuti per la democrazia nel ‘68? In un certo senso sì, ma non in quello che noi stessi intendevamo. Non vivevamo sotto un regime totalitario, ma sotto una democrazia, e abbiamo creduto o finto di credere che stessimo facendo la rivoluzione: non era vero. Portavamo la lotta di classe al suo apice con le barricate, ma la vera rivoluzione non è mai stata all’ordine del giorno. Col pretesto d’intraprendere la lotta finale contro il capitalismo, acceleravamo il processo democratico descritto da Tocqueville di livellamento delle condizioni e di liberazione dei costumi. È questo ciò che abbiamo realizzato. Contribuivamo all’allargamento dei diritti e nel cantare Bella Ciao (una canzone che continuo ad amare enormemente) difendevamo i diritti dell’individuo e mettevamo sotto accusa la pesantezza della società borghese. In effetti, stavamo creando, senza saperlo, la nuova classe radical-chic. Ecco ciò che abbiamo fatto nel ‘68 e negli anni seguenti, abbiamo dato vita al fenomeno Bobo.
MEG: Quindi sta dicendo, riprendendo Tocqueville che ha appena citato, che la democrazia è un concetto potenzialmente contradditorio, che la democrazia può insomma portare alla propria auto-distruzione? Il Regime del Terrore che fece seguito alla Rivoluzione Francese del 1789 è stato un fenomeno accidentale o intrinseco alla Rivoluzione stessa?
AF: Tocqueville fa apparire i due sensi della democrazia in quanto tipo regime e in quanto tipo di società. Vede all’opera nella società democratica un processo tale per cui il regime deve essere difeso e consolidato per mezzo di un processo di generalizzazione dell’idea del simile, (principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani e della loro uguale dignità). Questo processo è però pericoloso, perché rischia di appiattire e di livellare completamente la società. Una cosa è dire che i cittadini hanno uguali diritti, ben altra è dire che tutto si equivale. Ora, il processo democratico lasciato a se stesso conduce a questo nichilismo, a questa sorta di frenesia ugualitaria. Oggi siamo immersi in questo nichilismo democratico e dove nessuna gerarchia è più ammessa, la società si autodistrugge. Leggevo ieri ne Le Monde un articolo allucinante sui giovani delle banlieue. I giovani delle banlieue soffrono del fatto che Parigi è loro inaccessibile, sebbene Parigi si trovi a venti minuti da dove loro abitano…
(Si alza per cercare l’articolo in questione. Va al suo tavolo di lavoro sul quale sono sparsi una gran quantità di libri, fogli, taccuini: fra questi c’è una carpetta blu all’interno della quale Alain Finkielkraut conserva articoli di giornale ritagliati in precedenza. Torna a sedersi di fronte a me, soddisfatto e stupito di aver trovato così brevemente la pagina che cercava e alludendo al “bordello” in cui abita. Recita, non senza una nota di sarcasmo):
AF: “Parigi inaccessibile per i giovani delle banlieue”. Un giovane di nome Yanis Rezzug si lamenta di non poter andare a Parigi indossando i suoi vestiti, un paio di pantaloncini da jogging bianchi: è obbligato a mettere dei jeans… Il processo di livellamento delle condizioni è anche questo. Un tempo vestirsi significava indossare un abito, ma oggi il jeans diventa l’equivalente del completo a tre pezzi: prima difficoltà. In più, questi giovani non si sentono più i benvenuti. Così, malgrado la vicinanza di Parigi e le facilitazioni dei trasporti pubblici, malgrado anche il denaro speso nella ristrutturazione urbana, i giovani delle banlieue restano degli esclusi. E cosa vuol fare il sindaco di Parigi per cambiare le cose? “Cambiare le cose” per lei vuol dire cambiare di “postura”. Le voglio leggere testuali parole, perché non potevo credere ai miei occhi (come vede sì, sono l’uomo che non sa non reagire):
“Da sempre si pone la questione nello stesso modo: come aprire le porte della capitale ai giovani delle banlieue. Come sopprimere l’idea che suggerisce che abbiamo qualcosa più di loro. Se vogliamo davvero fare qualcosa, dobbiamo uscire da questa posizione di condiscendenza e metterci in una posizione di uguaglianza domandandoci perché noi non dovremmo vederli”. Parigi, 9 Luglio 2017
…Parigi: lei ci abita non da molto, ma potrei dire allo stesso modo Roma, Milano, Lecce (ho recentemente scoperto la bellezza di Lecce!). Queste meraviglie… e tutt’a un tratto ci dicono: non abbiamo niente più di loro. Ecco la follia che contiene l’idea di uguaglianza. Il problema della democrazia si verifica nel momento in cui i diritti dell’uomo e l’uguaglianza finiscono nella dismisura. È la dismisura del sentimento di uguaglianza intesa in un certo modo che porta a questo paradosso per cui Parigi si scusa di essere Parigi, la bellezza si scusa di essere la bellezza perché il fatto che sia bella significa che ha qualcosa di più rispetto agli altri, e questo non dobbiamo più poterlo dire. Allora, perché i giovani delle banlieue vengano più spesso a Parigi, bisognerebbe ammettere che la Corneuve, la Gonesse o non so, Mantes-la-Jolie (ndr. tutte banlieue ai bordi di Parigi) abbiano tanta ricchezza quanta ne ha Parigi.
MEG: Quindi a suo parere è necessario porre un limite al processo di livellamento delle condizioni.
AF: Esatto. Per non cadere nel ridicolo e in questi estremismi… la democrazia deve essere in qualche modo salvata da se stessa. È necessario, detto altrimenti, moderare la democrazia. Sappiamo farlo? Io non credo. Credo che purtroppo le previsioni più pessimiste di Tocqueville si stiano realizzando sotto i nostri occhi.
Ciò che accadde durante la Rivoluzione Francese è un’altra cosa, dal momento che si tratta dell’uscita dall’assolutismo e la democrazia andava ancora creata. Una società in cui la gerarchia era il principio del vivere insieme stava per essere rimpiazzata da una società in cui l’uguaglianza sarebbe diventata il principio del vivere insieme. Questa meraviglia dei diritti dell’uomo e del cittadino: questo momento della storia francese è stato straordinario. La questione viene da sé: sarebbe stato possibile tutto ciò senza una rivoluzione? E questa rivoluzione avrebbe potuto essere condotta senza violenza? Senza dubbio. Non è stato questo il caso. Il perché riguarda un’idea di matrice illuministica che è quella dell’innocenza originaria dell’uomo; idea senz’altro straordinaria, perché il peccato originale manteneva gli uomini nella suggestione. C’era qualcosa di liberatorio nel dire che l’uomo non era colpevole di essere ciò che era, che l’uomo poteva fare la propria storia. Semplicemente, il male ha cambiato natura: con l’idea di innocenza originaria, abbiamo congedato Dio e abbiamo congedato il diavolo. Sfortunatamente, l’abbiamo sostituito con il nemico. Il filosofo Marcquardt lo dice molto bene: il nemico ha assunto il ruolo del diavolo. Il male presente sulla terra non è attribuibile alla colpevolezza dell’uomo ma al disordine sociale e all’esistenza di un nemico: l’oppressore, per esempio. Non è l’uomo a essere malvagio, ma l’oppressore. Ecco l’origine del Terrore, il male è situato. Il diavolo non esiste più e ha preso le sembianze umane del nemico: se vogliamo eliminare il male, dobbiamo sopprimere il nemico. Il Terrore rivoluzionario ha portato questa idea fino al crimine, premessa della violenza mortifera del Novecento. La violenza del Novecento era fondata proprio su questo assioma: la sostituzione del diavolo con il nemico.
MEG: Eppure, interpretando il suo pensiero, lei si lamenta del fatto che oggi la situazione si sia in qualche modo capovolta. L’imperialismo occidentale ha fatto di noi l’oppressore e quindi il nemico. Per questo motivo ci sentiamo in qualche modo in dovere di fare un mea culpa, e questo senso di colpa si spinge spesso fino alla negazione dell’identità… Lei mi sembra molto critico rispetto a questa tendenza: sbaglio?
AF: No, non sbaglia. Quando dico che l’origine del Terrore sta nell’identificazione del male con il nemico, non ne concludo che allora non debbano più esserci dei nemici. Possono ben esistere. E d’altra parte oggi siamo condotti alla prova che essi esistono. Penso alla frase di Julien Freund, discepolo di Carl Schmitt che scrive una tesi e la argomenta davanti a Jean Hippolyte, filosofo hegeliano e sostenitore della teoria del riconoscimento. Hippolyte dice:
“Sulla questione della categoria dell’amico-nemico, se lei ha veramente ragione, non resta più che coltivare il proprio giardino”.
E Freund gli risponde:
“Ma Signor Hippolyte, non è lei a designare il nemico, è il nemico che la designa! Lei può fare le più belle dichiarazioni di amicizia, ma se egli vuole che lei sia il suo nemico, lei lo sarà, e non la lascerà nemmeno coltivare il suo giardino”.
Ed è esattamente ciò che ci sta succedendo oggi. L’Europa post-hitleriana non ha più nemici e d’altra parte ha deciso di vivere, al suo interno, nella pace perpetua e di estendere questo principio alla terra intera. Ma l’Islam politico e radicale ha già designato il suo nemico. Ci dicono che il terrorismo non ha nulla a che vedere con l’Islam, non vogliono nemmeno nominarlo, se non come una sorta d’indefinita patologia, ma il fatto è che siamo obbligati a prenderne coscienza. Il politicamente corretto è precisamente ciò che ci impedisce di guardare questa realtà in faccia.
MEG: E cosa pensa di quest’Europa che ha appena definito post-hitleriana, post-totalitaria, post-moderna? Già solo l’uso ripetitivo che si fa del prefisso “post” suggerisce che questa Europa, questo mondo, non sono più in grado definirsi: sanno solamente dirsi post qualcosa, ma non riescono a darsi nessun carattere proprio, nessuna individualità specifica. È fondamentalmente questo il conflitto che anima l’inchiesta di L’identità infelice in cui, con un’immagine davvero vivida scrive:
“L’Europa post-coloniale è un’Europa disintossicata che ha giurato di non ritoccare mai più la bottiglia ”. L’Europa, insomma, del “mai più questo”…
AF: Ha ragione a insistere così su questo “post”: l’Europa non può essere soltanto questo. Ciò che è “vecchio” si definisce attraverso il “dopo”. L’Europa deve assumere la propria storia e il proprio grande compito. Viviamo un periodo particolare della storia europea: per la prima volta l’Europa tenta di inventarsi una nuova forma politica che non sia né la nazione né l’impero. Si tratta di un’impresa del tutto straordinaria. L’Europa è un oggetto politico non identificato e la sua difficoltà è anche la sua gloria. Questa nuova forma che l’Europa ha assunto dovrebbe essere in grado di accogliere la vecchia civilizzazione che è stata. Eppure non lo fa, trascurando l’esempio dei grandi pensatori dell’Europa centrale e orientale, il cui dolore per l’inghiottimento da parte dell’Unione Sovietica non ci è stato trasmesso. L’Europa occidentale non ha vissuto che il trauma hitleriano da cui ha dedotto il divieto di ogni futura auto-definizione. Mai più dire “Noi”, perché chi dice “Noi” dice anche “Loro” mettendo così in azione l’ingranaggio fatale dell’esclusione e della discriminazione. L’Europa post-hitleriana è fondata sul sogno di un’umanità privata di qualsiasi separazione interna. Così facendo abbiamo rimpiazzato la civilizzazione, con tutto ciò che ha di specifico, con le norme e le procedure che hanno il merito di essere universali o universalizzabili.
Abbiamo visto all’opera il rifiuto dell’Europa di assumersi come civilizzazione quando la Turchia ha fatto richiesta di entrare nell’UE. Quelli che erano favorevoli ritenevano che qualora la Turchia avesse soppresso la pena di morte e rispettato la democrazia, non ci sarebbe più stata ragione di negarle l’accesso. D’altra parte anche coloro che si opponevano all’entrata della Turchia sostenevano simili argomenti di diritto, dicendo ad esempio che fintantoché la Turchia non avesse riconosciuto il genocidio armeno, l’annessione non sarebbe stata possibile. Il punto però è un altro: può darsi che il Giappone abbia commesso una serie di errori storici, ma il fatto che si scusi per, che ne so, il massacro di Nanchino, non fa del Giappone una nazione europea. Ci dicono: se osate affermare che la Turchia non fa parte dell’Europa, allora riducete l’Europa a un club cristiano. E d’altra parte il governo francese sotto il mandato di Chirac e con Lionel Jospin primo ministro, si è opposto all’inserimento delle radici cristiane dell’Europa nel preambolo della Costituzione Europea. L’Europa non deve avere delle radici cristiane, non deve avere delle radici e basta, dal momento che i diritti dell’uomo comprendono già tutto ciò che è necessario. È questa frenesia universalista dell’Europa post-hitleriana che la conduce alla rinuncia di sé. Trovo che tutto ciò sia un peccato e, nella misura in cui l’Europa ha dei nemici e venga sottoposta a un massiccio flusso migratorio, anche pericoloso.
MEG: Ma quindi lei esclude, nonostante tutto, l’auspicabilità dell’uscita della Francia dall’UE? L’Europa di Maastricht è in qualche modo degna dell’Europa?
AF: No, non ne è degna. Diciamo che ho la nostalgia dell’Europa. Ma mi dico che comunque non è ancora tutto perduto. Mi dico che l’Europa dovrà risvegliarsi, riconoscere l’esistenza dei suoi nemici, intraprendere un processo di conoscenza più matura di ciò che è e di ciò che è stata. Ma non dispero completamente e credo che la dissoluzione dell’Europa non sia auspicabile per nessuno; bisogna piuttosto che si assuma come civilizzazione e non semplicemente come mercato regolato dal diritto, ma non vedo alternative politiche e di civiltà reali nel Sovranismo, per quanto desolante la situazione politica attuale sia. Ciò che mi auguro è un sussulto europeo e dei popoli, piuttosto che la dissoluzione dell’Europa.
MEG: La ringrazio. Ho un’ultima domanda che non riguarda la politica. Lei ha un rispetto commovente per l’istituzione scolastica e insiste molto sull’importanza di avere dei maestri. Parla spesso del ruolo che Monsieur Germain (il maestro di Albert Camus) ha avuto per Camus; anche Peguy, altro suo grande riferimento letterario, è diventato quel che è diventato grazie alle attenzioni del suo maestro. Mi chiedo se anche lei abbia avuto qualcosa di simile, e da dove provenga altrimenti il suo amore letterario.
AF: No. Ho avuto dei buoni professori, ma non avuto la fortuna di avere dei veri maestri nei confronti dei quali provo quel tipo di riconoscenza. Camus parla di Monsieur Germain in termini mirabili, e d’altra parte vorrei ricordare una cosa che la gente tende a dimenticare e che ci riporterà al primo Camus di cui abbiamo parlato, a Renaud. Quando Albert Camus rivede Monsieur Germain dopo la guerra e lo informa di avere scelto la Resistenza. Monsieur Germain pronuncia questa frase straordinaria:
“Non mi stupisce, ho sempre saputo che eri della razza buona”.
Questa parola, razza, che ci è stata confiscata dai razzisti, diviene oggi completamente incomprensibile.
MEG: In che senso dovremmo comprenderla?
AF: Se vuole in senso di onore, di lignaggio, di un’esigenza. Nel senso di mostrarsi all’altezza. Penso anche questo: non ho conosciuto i miei nonni e i miei bisnonni, ma ho comunque il desiderio di non deluderli per mezzo della mia esistenza e di restar loro fedele. Raymond Aaron dice una frase molto bella sui suoi nonni, lui che ha conosciuto Rambervillers e che si inseriva nella tradizione ebraica, Ebreo assimilato modello dell’invettiva di Sartre il quale gli rinfacciava di essere Ebreo solo nello sguardo degli altri. Ma ecco quel che dice Aaron:
“se devo confrontarmi con i miei nonni, che hanno vissuto nello studio e nell’osservanza della Legge, spero solo che pensino di me che sono rimasto fedele”.
È una frase molto commovente: questa è la razza. O meglio, può essere anche questo. Può darsi che la parola sia del tutto fuori-moda oggi, ma quel senso che essa contiene non deve essere dimenticato, e penso che possa valere anche per le nazioni. È ciò che dicevamo prima per la Francia: non esser fieri di essere francesi, ma esserne degni.
Maria Elena Gottarelli
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03Oct
Ringrazio Maria Elena e lo IASSP per averci dato la possibilitá di "leggere"la realtá Europea attuale attraverso la saggia e dotta lente di un gigante quale é Alain Finkielkraut.