28
Jun
Parte Seconda
Nulla è fatale….; nulla è già deciso dal destino.
Da un incontro, da una conversazione, nel cammino della ricostruzione, arriva il suono di una messaggio dirompente che ti fa immediatamente pensare, scrivere, modificare radicalmente il compito della vita.
Teatro dei mercanti della mediocrità, i desideri miserabili e i sogni dell’apparenza sono radicalmente e visceralmente attaccati alla realtà; bene, la sapienza , la cultura appartiene alla irrealtà o meglio al regno della trascendenza.
Il limite dell’illuminismo è stato essenzialmente il fermarsi al confine della realtà: la ragione per definizione, si nutre e indaga il reale nella sua compiutezza, vigilando il suo confine.
L’uomo e il suo discorso, non può fermarsi al limite della realtà, ma necessariamente va oltre, oserei dire, naturalmente oltre, perché ogni sua “nobiltà” ha essenzialmente un logos e un topos irreale, supera l’immanenza per divenire trascendenza.
Per ricostruire la bellezza dell’uomo e del suo essere spaziale, nuova stella nell’universo; è necessario ricostruire l’idea di comunità e il sentimento di appartenenza al bene.
affidarsi al sentimento timotico che muove la condicio humana , donne e uomini con il loro orgoglio, la loro audacia, il loro coraggio, la loro voglia di affermarsi, la loro domanda di giustizia, il loro senso della dignità e dell’onore, la loro indignazione e le loro energie guerriero-vendicatrici”[1].
E’ il sentire, ubi consistam dell’appartenenza, la ricostruzione di una storia e di una cultura.
Solo l’appartenenza ad una determinata storia sociale può determinare il riconoscimento di un interesse comune e il determinarsi per il bene comune.
Il concetto di comunità ritrova, quindi, il suo senso profetico di condizione dell’esistenza dell’essere; condizione di un progetto e di un legame.
L’uomo nella comunita supera la fragilità della solitudine, immaginando un progetto di cura e di miglioramento.
Pertanto, la comunità è, e deve essere determinata, stanziale per il rapporto dialogico che sviluppa con i suoi protagonisti.
Octavio Paz, nella sua opera capolavoro “Il labirinto della solitudine” scrive «La solitudine è il fondo ultimo della condizione umana. L’uomo è l’unico essere che si sente solo e l’unico che è ricerca d’un altro. (…) L’uomo è nostalgia e ricerca di comunione. Perciò ogni volta che sente se stesso si sente come mancanza d’un altro, come solitudine».
Octavio Paz parla di naturale ricerca di comunità a cui l’uomo tende; la solitudine è la condizione umana che genera segregazione culturale e sociale, modifica i rapporti di forza nella società, rendendo gli individui in condizione di inferiorità, soprattutto perché vanno a declinare una realtà preculturale/primordiale, elementare: uomo/donna…forte/debole, determinando la manipolazione, l’omertà e l’assoggettamento della vittima.
Il contributo in lirica e filosofia dello scrittore messicano, impegnato in un dialogo identitario con il mondo, viene ripreso da Gabriel García Márquez a cui conferisce il dono dei simboli e dell’immaginazione.
Nel campo comunitario si dischiude il discorso dell’uomo con il suo limite, il suo oltre e i suoi desideri.
Nulla è fatale….nulla è già deciso!
La caratteristica dei capolavori è che ci interrogano, ci commuovono e ci impongono di reagire. L’antico busto di Apollo nel celebre poema di Rilke ce lo dice in termini chiari: «Du sollst dein Leben ändern». («Devi cambiare vita.»)[2].
Muovere l’inerzia con la determinazione dell’ultimo uomo; sentirsi custode dei grandi autori tutori della storia; sublinare l’immortalità, vivere per la trascendenza.
Interrogarsi continuamente sul compito dell’umanità, criticando l’immutabile perchè l’immutablità è sempre e solo una condizione dell’animo: è astenia dell’anima.
Seguire la capacità critica di defatalizzare il mondo, di sconfessare la retorica della sua immodificabilità e l’incantesimo dell’adattamento.
Dare un compito alla vita, un compito denso del prodigio dei sogni e della ricerca di verità.
Un nuovo compito e dei nuovi autori: essere Autori di noi stessi e vivere questa eperienza con la tenacia e la temerarietà dell’eletto.
È indispensabile essere elitari – ma nel senso più autentico del termine: prendersi la responsabilità per «il meglio» della mente umana. Una élite culturale deve sentirsi responsabile della conoscenza e della conservazione delle idee e dei valori più importanti, dei classici, del significato delle parole, della nobiltà dei nostri spiriti. Essere elitari, come ha spiegato Goethe, significa essere rispettosi: rispettosi del divino, della natura, degli altri esseri umani, e dunque della nostra umana dignità[3].
Quanto è pesante l’eredità culturale del nichilismo che ha trasformato il futuro in paura, limitando lo sguargo al presente, anch’esso, ridotto a stagno di sentimenti e virtù.
Essere autori di se stessi significa parlare di passioni, di emozioni, quindi del profondo della conditio humana comprensibile nei moti del thymós: “ la timotica apre agli uomini la strada sulla quale essi fanno valere ciò che hanno, possono, sono e vogliono essere[4]”.
Quando si discute di passioni, è impossibile non apprezzare il contributo di Sloterdijk sul sistema dei desideri che genera il profondo e l’irrepetibilità dell’uomo.
L’analisi di Sloterdijk muove dalla stanchezza di una società in cui il thymós, l’insieme delle passioni-contro, è andato incontro ad una progressiva atrofizzazione.
In linea con l’apparato (Ge-stell) economico-politico occidentale, la società nel vizio[5] e del consumo, non lotta più per il riconoscimento, ma solo per l’appropriazione.
Appropriazione eminentemente materiale e quasi spirituale.
Apparire per esistere; comprare beni, sommare cose, oggeti per il bisogno di colmare il vuoto di un progetto e/o di un’esistenza.
Con Heidegger si potrebbe dire che “Il vuoto dell’essere (…) non è mai suscettibile di venir riempito dalla pienezza dell’essente”[6].
Vuoto che non è altro che vuoto di riconoscimento, vuoto di confronto, vuoto di desiderio, svuotamento del luogo in cui le passioni timotiche trovano il loro terreno di confronto per eccellenza: il campo politico.
È il venir meno della possibilità di integrazione in strutture politiche, religiose, in istituzioni per dirla con Gehlen, che riescano ad inserire l’individuo in un contesto propriamente sociale la causa prima del ritrarsi del thymós nella contemporaneità. Anche le esplosioni di ira popolare sono estemporanee: atti amorfi di misocosmia, direbbe Sloterdijk, facendo l’esempio delle banlieue parigine.
Nel panorama italiano ci sono state espressioni migliori, ancorate a tematiche di contro-cultura e contro-informazione, partendo dall’innovativo blog di Beppe Grillo e dopo al formarsi del movimento che vi richiama.
Manca il confronto e la tensione al miglioramento, condizioni che hanno generato la modernizzazione di questo paese, ora sono scomparse.
Il confronto politico poteva tingersi di colori forti, violenti, veementi nell’immedesimazione di un percorso di affermazione, emancipazione e riconoscimento.
Ma il confronto, parola chiave del thymós, c’era. Aspro, violento, radicalmente politico nel senso schmittiano del termine, ma c’era.
Carl Schmitt, nelle sue importanti analisi sulla politica e il concetto di politico, non manca mai di sottolineare che il concetto vive fin dall’inizio della possibilità piena e aperta del confronto violento tra le fazioni opposte, la possibilità dell’annientamento fisico dell’avversario.
Il messaggio filosofico Schmittiano anche semanticamente allerta l’uomo al presagio di una politica che non voglia essere inglobata dall’impotenza pubblicitario-capitalistica della società dello spettacolo: “In primo luogo tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, (…) la possibilità reale della lotta deve essere sempre presente affinché si possa parlare di politica (…)[7].
Allo stesso modo il concetto di politica e la sua omnicomprensività prevede l’eccezione per la sua tutela.
Quando il confronto, la dialettica si blocca, incontra una minaccia grave, tale da minare le condizioni di esistenza dello Stato; lo Stato, novello Cincinnato, ha il dovere di mostrare alla minaccia la faccia cruda della tirranide: “lo Stato d’eccezione.”
Carl Schmitt sostiene che l’esistenza e l’identità stesse dello Stato si fondano sulla realtà più profonda ed essenziale del rapporto “amico e nemico”, e che la sovranità è determinata dall’individuo o dall’entità che è capace di definire e proteggere la società dai nemici nelle situazioni di minaccia esistenziale. Piuttosto che ricorrere alle norme, il sovrano deve ricorrere alla legge del campo di battaglia o “al decisionismo concreto”.
Lo Stato di eccezione di Carl Schmitt è una condizione extra-legem, nella quale un sistema di norme non funziona più ed un nuovo sistema non è stato ancora emanato. Titolare della sovranità, quindi, è solo chi decide durante lo stato di eccezione e, decidendo, crea il diritto, produce un nuovo ordine giuridico e statuale.
Lo “Stato d’eccezione per il Sud”
La condizione di sovranità decorativa di molte zone del meridione d’Italia a vantaggio dell’affermazione culturale oltrechè logistica e di controllo del territorio delle organizzazioni mafiose, richiede una risposta dura, coraggiosa ed impegnativa sul modello schmittiamo dello Stato d’eccezione.
la classe politica e dirigente di questo Paese sul punto, non può e deve retrocedere di un millimetro: affermare il principio identitario di legalità senza se e senza ma.
Quella che è stata definita la legislazione di emergenza e la produzione di un diritto penale dell’’emergenza per il contrasto di fenomeni criminali di stampo mafioso e terroristico, ha rappresentato una grande manifestazione di dignità delle istituzioni italiane e della sua classe dirigente che congiuntamente, maggioranza e opposizione, ha tutelato l’unità culturale, identitaria di una comunità e la volonta a stare dalla parte giusta.
Tale decisione ha rappresentato una grande affermazione culturale ed un’opzione sostanziale di identità e visione dello Stato.
È questo il compito di una nuova classe dirigente; riaffermare la dignità e l’integrità dello Stato, riaffermare culturalmente il compito del governo, della buona politica per il bene comune.
Tale opzione è applicabile solo se si pone come centrale il tema della cultura, della selezione della classe dirigente con il criterio del merito; attribuendo alla cultura e alla formazione culturale per il governo del paese e dell’economia una centralità dirimente.
Il tema della cultura, strategico come un nuovo “patto per il futuro” dell’Italia che garantisca tutti e richiami tutti su una vision identitaria di emancipazione.
Cultura, identita e merito per un nuovo compito e un nuovo discorso.
La cultura è la “seconda natura” ovvero: la natura umana dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere; e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso “innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale[8].
Come è grande è pertinente l’analisi di Arnold Gehlen (noe o post-umanista) sulla natura dell’uomo, sul ruolo della cultura e il rapporto con le istituzioni: la cultura rende superiori, irrepetibili, non istintivi ovvero non animali. Con essa l’uomo assume la capacità di antivedere e provvedere, liberando in tal modo spazio ed energia per la possibilità di apprendere il mondo, modificare le decisioni, controllare il Sé.
Con essa, sviluppa un’altra specificità umana: l’autodisciplinamento che produce le istituzioni, “L’uomo può mantenere un rapporto duraturo con se stesso e i suoi simili solo indirettamente, si deve ritrovare facendo una deviazione, estraniandosi, e là ci sono le istituzioni”[9].
Assistere all’arroganza della produzione, l’irrazionalità del consumo, l’imponenza degli apparati: le sole grandezze rimaste in un’epoca assai più mediocre di quanto l’amor proprio del presente non voglia far credere in primo luogo a se stesso.
Una modestia complessiva di uomini e luoghi: La volgarità che rifiuta le forme, le città sporche, i graffiti che ovunque aggiungono solitudine a solitudine, grigiore a grigiore, sono la conferma empirica -quotidiana- della pochezza generale[10].
A fondamento di tutto questo Gehlen individua una ben precisa ragione: la perdita di legittimità e di senso delle istituzioni.
Il venir meno del decoro non rappresenta la fine di un’abitudine fra tante ma costituisce la perdita di una delle ragion d’essere della cultura: “la difesa dell’uomo dalla sua stessa natura”; all’utopia della liberazione da ogni autorità “la storia rispose senza pietà, chiarendo radicalmente ai chiarificatori quale fosse la natura umana che essi avevano liberato dalle catene. E non si sono tuttora ripresi dallo stupore per il fatto che le masse non li seguivano nella loro perfetta illuminazione dell’interiorità”[11].
Le istituzioni devono rappresentare per l’umanità ciò che è l’istinto nell’animale, il recupero di un comportamento finalizzato alla sicurezza della specie, alla sopravvivenza legittima dell’individuo con i suoi desideri e diritti in relazione con i desideri e i diritti di altri.
Recuperare il senso delle Istituzioni, sentirsi uomini dello Stato è il nuovo compito della Politica e della Leadership.
La Leadership deve garantire il senso di appartenenza alla comunità, la profonda convinzione della giustezza dei principi che ci fanno stare insieme e che garantiscono i nostri sogni e i nostri desideri.
La tutela di questo sistema immaginifico e identitario è la fiducia nelle istituzioni e è la classe politica deve essere da esempio e da guida, esprimendo una Leadership che viva con pienezza, coerenza e coraggio la responsabilità di una comunità.
La responsabilità del bene!
Carmine de Vito
[1] Sloterdijk P, Ira e tempo, cit., pag. 21.
[2] Geoge Steiner, Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006, pp. 17 sgg
[3]Steiner G., Citato in Riemen, prologo a Steiner 2006, pp. 17 sgg.
[4] Sloterdijk P., Ira e tempo: saggio politico-psicologico, Biblioteca Meltelmi, Roma, 2007, pag.23.
[5] Espressione coniata e usata da Sloterdijk P. in Sfere III .
[6]Heidegger M., Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 2006, pag. 62
[7] Schmitt C., Il concetto di “politico”, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 113-116
[8]Gehlen A., L’UOMO. La sua natura e il suo posto nel mondo (Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt. Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Wiesbaden, AULA Gmbh, 1978. I ed. 1940), trad. di C.Mainoldi, introduzione di K.S. Rehberg, Feltrinelli, Milano 1990.
[9] Gehlen A., Antropologia filosofica e teoria dell’azione (Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1983), trad. di G.Auletta, presentazione di E.Mazzarella, Guida, Napoli 1990.
[10] “Ci mancano del tutto la durezza e la rigidità degli antichi, ma anche il loro opposto classico: la loro serenità e libertà…il piacere e il “di più” di vita sono diventati diritti che si pretendono; il senso autenticamente aristocratico e autenticamente proletario del tragico viene deriso, la forza morale e spirituale non vale più a porre un limite al superfluo e al già detto, la vita non vissuta sviluppa forme sue proprie di dittatura, tutti i parametri si rimpiccioliscono. È lo stile Luigi Filippo dell’epoca”. Gehlen A., Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen, Aula, Wiesbaden 1986 [1956-1975]), trad. di E.Tetamo, Il Saggiatore, Milano 1994, p.22,114.
[11]Gehlen A Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen, Aula, Wiesbaden 1986 [1956-1975]), trad. di E.Tetamo, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 23, 125.
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03Oct
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