05
May
L’affermazione del multipolarismo non è una tendenza, ma è la condizione dell’esistente. Essa è vissuta e percepita in ogni latitudine da ogni Paese e questo, inevitabilmente, moltiplica la conflittualità regionale e globale in assenza di una nuova condivisione degli equilibri di forze.
La complessità dell’esistente si traduce, in ’”Occidente”, nella crisi della modernità e della società che ha dettato negli ultimi due secoli il modello di rappresentanza politico-sociale e ne ha fatto peraltro il suo paradigma egemonico globale.
Gli Stati Uniti, superpotenza primaria del “primo mondo” ha, con difficoltà, compreso la lenta e inesorabile fine dell’unipolarismo, commettendo però errori strategici nei quadranti latinoamericano e medio-orientale.
Gli USA hanno poi rimodulato una soft policy incerta ed approssimativa nell’analisi delle conseguenze. Esempi sono il “caos libico”, lo spropositato protagonismo della Turchia nella regione mediorientale e nella lotta al terrorismo internazionale e al Daesh; per finire con la Russia, vista come nuovo oggetto di guerra fredda.
In Sud America, vi è il crollo del Brasile e del modello “Lula” , crisi solo minimamente attenuata dalle nuove prospettive politiche apertesi in Colombia ed in Argentina con una nuova ed affidabile classe dirigente.
Nel concerto internazionale, l’unico protagonista che ha le idee chiare per formazione e costruzione del suo pensiero strategico tradizionale è la Cina.
Tanto più si sviluppa la teoria delle “Tre economie” di Hu Jintao e di Xi Jinping, che tanto richiama alla mente la “teoria dei Tre Mondi” di Mao (l’occidente è il nemico, compresa la Russia, poi i Paesi marginali e infine il Terzo Mondo, ovvero la Cina e i suoi alleati), tanto è maggiore la forza di penetrazione dell’universo confuciano in tutte le latitudini. Un modello che domina con la coesione e l’unità concettuale le variabili fondamentali della geopolitica e della tecnologia.
“Dobbiamo controllare la Terra”, disse Mao in una discussione interna al Comitato Centrale del PCC nel 1956. Ecco quindi che nella crisi del “primo Mondo”, dove le sfide della modernità hanno destrutturato le solide società dei diritti, non più di riferimento globale, la sapienza e la lungimiranza del pensiero politico cinese ha perseguito il mito del “Grande Impero di Mezzo” al quale convergono le linee di sviluppo sia dell’Eurasia occidentale che quelle dell’area del Pacifico.
L’Occidente si trova per la prima volta in una condizione di difficoltà filosofica e ontologica: è il soggetto che, nel suo insieme, ha determinato la grande crisi economica dal ‘29 e dal 1989 sono emersi, con le successive crisi del 2006 e del 2008, nuovi centri di potere ed attori nuovi nell’assetto multipolare dell’economia mondiale, che lo stesso occidente ha irrimediabilmente danneggiato.
La crisi identitaria dell’Occidente è la crisi della sua missione storica, che consiste nel saper immaginare sempre qualcosa di più grande; qualcosa che sappia ricostruire un nuovo sistema coinvolgente di desideri e comportamenti, un ubi consistam etico-esistenziale di attesa della felicità.
L’ esistente mostra i limiti, sia strutturali che di legittimazione, della coeva governance mondiale che diventa multipolare nei fatti, non essendo sorretta da nessun processo e progetto politico complessivo.
L’evoluzione in corso dell’architettura della governance si mostra ancora instabile; il sistema di regole esistenti è reso lettera morta e surclassato dall’attivismo diplomatico degli attori internazionali; che pure sono inadeguati a fronteggiare i nuovi grandi problemi dell’economia globale.
Per affrontarle, le nuove sfide, si continua a evocare una nuova Bretton Woods per le regole finanziarie globali, anche se tale richiamo risulta addirittura fuorviante, visto che quel sistema di governance internazionale si sviluppò e funzionò per trenta anni in quanto era incentrato sull’indiscussa leadership e l’egemonia degli Stati Uniti.
Tale struttura gerarchica internazionale si è dissolta nei fatti e soprattutto nella forza delle culture antagoniste al “secolo americano”, come è stato chiamato da Geminello Alvi.
Gli Stati Uniti continuano ad essere un paese economicamente forte, certamente anche il più forte a livello militare; ma non più in grado di decidere le scelte unilateralmente sia in campo economico che sul campo strettamente militare; e in tale contesto ci si riferisce specificamente alle invasioni di territorio.
Cartina di tornasole di questo fenomeno è stata l’impossibilità, per l’Amministrazione Obama, di poter risolvere a proprio valtaggio, secondo lo schema Afganistan-Karzai, il nodo strategico siriano ed il naufragare del “caos Libia”.
Molto più produttiva è stata la smart policy Usa in America Latina e in particolar modo in Colombia, in Argentina e a Cuba; oltre che nell’area Asia-pacifico con il “pivot to Asia” che è l’obiettivo più forte ed immediato della attuale politica statunitense.
Su questa linea, abbandonati gli ultimi isterismi da ancien régime, sono state determinanti le relazioni e gli interessi degli USA con i nuovi protagonisti del concerto multipolare.
Sul punto, recentemente, due articoli scientifici hanno ragionato sul ruolo e sull’importanza dei nuovi attori, principalmente sull’ utilità dei BRICS nelle strutture della politica globale e della governance internazionale.
Il primo è stato pubblicato il 29 sttembre 2015 su Project Syndicate da Ana Palacio, ex Ministro degli Esteri spagnolo, rubricato “l’errore dei BRICS” (the BRICS’ fallacy).
Il fulcro dell’argomentazione è che i BRICS non saranno mai in grado di interpretare un ruolo di leadership mondiale, semplicemente perché il “durevole dominio” degli Stati Uniti non può essere rimpiazzato da blocchi di potere sostitutivi.
Nel riconoscere che “l’ordine internazionale si trova ad un punto di svolta”, la Palacio sottolinea l’importanza degli Stati Uniti all’interno del vecchio e nuovo sistema internazionale, che spera “possa aiutare a spronare gli USA a dedicarsi nuovamente alle proprie responsabilità internazionali”.
Vi è qui l’auspicio affinché la politica statunitense ritorni a disegnare un orizzonte integrante e rassicurante per i nuovi soggetti statuali, perché “i BRICS restano un fattore” ma semplicemente non “il solo fattore” in grado di garantire una leadership globale.
Il secondo articolo, intitolato “BRICS sul punto di collassare poiché i membri non mostrano coesione” (BRICS in danger of collapsing as members fail to cohere), è stato pubblicato sul quotidiano sudafricano “The Business Day” il 9 ottobre 2015.
Gli autori, Daniel e Virk, pongono l’accento sulle disparità economiche fra i cinque Paesi e sulla loro inconsistenza quando si parla di strategie di governance globale su temi come la “Responsibility to Protect”.
Gli autori concludono che “le differenti priorità ed aspettative [dei BRICS] potrebbero indebolire il loro sforzo collettivo volto alla creazione di un ordine mondiale equo e democratico”.
Entrambi i punti di vista sono validi e soprattutto sono indicativi di una crescente attenzione/ossessione a proposito dei BRICS.
Questa preoccupazione nei riguardi dei BRICS, specie nella riflessione di Daniel e Virk, rende in modo plastico la precarietà stessa del concetto; le ultime analisi hanno derubricato l’acronimo BRICS in RICS, esludendo il Brasile che è caduto in una crisi per certi versi illogica, mostrando sia l’eterogeneità delle varie economie e sia l’incapacità di esprimere una sintesi unitaria di governance globale che siano disancorate dai contesti macroeconomici di riferimento.
Solo la Cina costituisce un capitolo a parte; ha la storia, il pensiero e la leadership che ne fanno una specificità.
La crisi del Brasile indica come, nell’attuale paesaggio globale, la sfida alla legittimità dei BRICS possiede una sua validità, considerata la natura di un mondo multipolare in evoluzione dove i nuovi centri di potere economico e politico si determino in funzione delle crisi regionali e dei correlati nuovi nazionalismi.
Il quadro sistemico di precarietà e di mobilità strategica impedisce qualsiasi opzione di governance classica, perche, in fin dei conti, l’interdipendenza strategica sottostà a quasi tutte le transazioni globali.
In tal modo, mentre una volta si sosteneva che “quando gli USA starnutiscono il mondo intero si prende un raffreddore”, oggi il raffreddore viene trasmesso da un’orchestra di differenti e spesso esiziali starnuti.
In questo senso, e con maggiore serenità pragmatica, qualsiasi previsione sui nuovi player mondiali (BRICS-RICS etc…) costituirà sempre una riflessione ragionevole ma suscettibile di continua revisione, solo gli USA (ancora) e la Cina giustificano affermazioni più certe sul ruolo nella governance globale.
Quello che è costante e continuerà ad esserlo, è la continua formazione di differenti centri di potere nell’attuale arena geopolitica.
Sanusha Naidu chioserebbe che “serve comprendere quanto sia diventato frammentato il sistema internazionale”.
di Carmine de Vito
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