03
Feb
Il nostro Istituto ha previsto per il secondo semestre una serie di seminari aperti al pubblico sul nesso tra lavoro produttivo e potere finanziario.
Rispetto a tale rapporto sussistono forti dubbi sulle dotazioni cognitive che disponiamo e sulla stessa capacità di dare risposte strategiche adeguate.
C’è apprensione anche rispetto alle luci e alle ombre della stessa attività finanziaria (Shareholder Capitalism).
Tuttavia è più che mai la finanza che può permettere alla nostra produzione di dispiegare le ali, potenziarsi e competere. “la finanza è un rischio affascinante”.
L’Italia eccelle ancora nel lavoro produttivo, nella capacità di trasformare la materia in ricchezza, qui sta tutta la sua dignità di Paese. La sua reputazione è risposta soprattutto nelle mani della nostra imprenditoria.
È proprio la reputazione il nostro punto debole di fronte ai mercati 8 e 80, sono due numeri rivelativi: l’economia italiana è l’ottava al mondo, mentre scivola all’ottantesimo posto rispetto al prestigio internazionale!
La nuova contraddizione è quella che vede contrapporsi le categorie della società del lavoro con quelle della società del consumo e dell’investimento diffuso. La contraddizione sta in una imperterrita spinta al consumo mentre diminuisce il potere di acquisto, essa riguarda tutto l’Occidente e in particolare il nostro Paese che, come nel Novecento, è ancora ritenuto nel bene e nel male un laboratorio della modernità.
Si stanno quindi disegnando in una durissima competizione alleanze e gerarchie tra gli stati per assicurare e difendere stili di vita non più generalizzabili.
Quale strategia di politica economico-finanziaria è teoricamente auspicabile e quale è “realistica”, visto che oggi il margine delle scelte si riduce progressivamente quanto la sovranità di un paese democratico?
L’Istituto affronta queste tematiche non solo rispetto al piano teorico ma nella prospettiva di una risposta strategica concretamente praticabile dalle istituzioni del nostro Paese e soprattutto da coloro che attraverso il lavoro ne assicurano il benessere.
Alcuni Relatori del volume:
Pier Carlo Padoan – Ministro dell’Economia delle Finanze
Raffaele Tiscar – Vice Segretario Generale del Governo
Roger Abravanel – saggista (già direttore Mckinsey)
Angelo Deiana (Presidente Confassociazioni),
Diego Fusaro – Docente: Facoltà di Filosofia Università Vita-Salute San Raffaele – Milano
Davide Giacalone – Politico, Giornalista e Scrittore
Marco Morganti – Amministratore Delegato Banca Prossima
Nicola Morra – Senatore
Franco Moscetti (già AD di Amplifon),
Giorgio Pisani – Presidente Farmaceutica IBSA
(…)
Relatori presenti il 23 giugno
Moderatore: Gianni Lattanzio, Associazione Dialoghi
Alberto Bagnai: Saggista, Economista
Lelio Gavazza: Presidente Bulgari
Davide Giaccone: Saggista
Vladimiro Giacchè: saggista
Lucio Malan: Senatore
Nicola Morra: Senatore
Ivan Rizzi, Presidente IASSP
Mario Sechi: Saggista. Giornalista
Gianluca Susta: Senatore
Filomena Tucci: Dipartimento Innovazione IASSP (…..)
Contributo estratto dal libro «Iperfinanza e lavoro produttivo»
Potenzialità e ratio delle Azioni Sviluppo
di Giorgio Basile, Presidente e CEO ISAGRO
Le Azioni Sviluppo sono state pensate come una opportunità per il rafforzamento patrimoniale ma da quando sono nate nel novembre 2007 sono state utilizzate solamente da Isagro nel maggio 2014. Un mancato successo quindi non nell’emissione ma proprio nella stessa vita del titolo.
Sono azioni semplicissime che ad oggi non sono ancora state capite, ma io sono tuttora convinto che quando ciò accadrà rappresenteranno uno strumento che si affermerà. Doveroso dunque fare una premessa per spiegare al meglio quale sia l’origine delle Azioni Sviluppo.
L’idea è nata quando nel 2003 ho portato in Borsa la società Isagro, spronato da una mia esigenza interiore dato che sono mentalmente aperto al mercato ma rigidamente contro la cultura prevalente nel mondo finanziario: il concetto dell’indispensabilità della contendibilità per qualificare un titolo degno d’essere quotato. Questa spinta alla contendibilità, ora leggermente attenuata, ha le sue ragioni di fondo nella massimizzazione della valorizzazione del titolo per chi investe. Questa massimizzazione in molti casi la si ottiene con l’acquisizione del controllo da parte di terzi, cioè si presuppone un qualcosa di acquistabile, aggredibile e che quindi debba essere contendibile.
Sono profondamente contrario a questo concetto, non nel senso che la contendibilità non sia legittima, ma per quanto concerne l’aspetto della dimensione dell’impresa che si apre al mercato e a tutte le regole di trasparenza, al fine di reperire fondi per portare avanti un progetto di sviluppo. Quando, infatti, ad accedere in Borsa è un’impresa medio-piccola, la stessa può essere preda di una acquisizione ostile, e così vedere sfumare il proprio progetto di sviluppo. Ripeto, non discuto la legittimità ma sicuramente non è in linea con l’obiettivo originario: reperire fondi per lo sviluppo e non vendere quote della propria proprietà.
Questa mia posizione era ed è considerata molto negativamente da quel mondo della finanza che ritiene invece prioritaria la massimizzazione anche nel breve.
Ritenevo doveroso muoversi nella direzione di una apertura delle imprese al mondo finanziario, per permettere sì la raccolta di risorse aggiuntive ma mantenendo nel contempo stabile l’assetto di controllo.
Ci sono ragioni culturali del perché in Italia non ci sia ancora un avviato e diffuso processo di apertura al mercato, ragioni da me non condivise e ritenute “di bassa cucina”: commistione tra fatti privati, familiari e fatti aziendali. Nel nostro sistema produttivo ‒ escludendo le PMI che sono quasi fuori dal gioco ‒ le vere “medie” sono comunque assolutamente piccole all’interno di un panorama economico mondiale. Il punto è che vanno incoraggiate le imprese del quarto capitalismo, quelle medie e ferme costantemente al seguente bivio: rimangono medie o diventano più grandi? Ma come fanno a crescere se, salvo eccezioni, non generano adeguati flussi di cassa? Come facciamo a portarle ad aprirsi al mercato e non invece ad indurle a vendersi, come avviene continuamente? È una cosa legale ovviamente, ed entro una certa misura è fisiologico che alcune imprese muoiano e che alcune si vendano, ma non è più fisiologico quando la misura di questo supera certi limiti e/o quando non è biunivoco. Ad oggi questo è un concern del sistema dell’impresa italiana.
Prima dell’avventura imprenditoriale, per ventisei anni ho lavorato in grandi società, quindi sono cresciuto nella cultura della grande impresa e non sono rappresentativo del quarto capitalismo; infatti più che di prima generazione potrei definirmi di mezza generazione. È però un vantaggio culturale per quanto riguarda la sensibilità a questo tema, perché per me non è tollerabile una commistione tra “famiglia” e “azienda”.
La premessa è lunga ma a mio parere rappresenta il cuore del problema perché alla base del fare impresa dovrebbe essenzialmente esserci una evoluzione di tipo culturale, principalmente nelle aziende di medie dimensioni. Il nostro Paese è davanti ad una partita importantissima, perché, se troppe aziende passano la mano o muoiono, sarà dura ricostituire il sistema dorsale dell’industria.
A fronte di questo, mi sono chiesto: come reperire mezzi mantenendo il controllo? Per difendere la finalità del progetto si deve assolutamente avere la possibilità di emettere azioni che non tocchino l’aspetto del voto. Ma allora perché le azioni risparmio e le azioni privilegiate, stanno “morendo”? A conti fatti, la ragione credo sia essenzialmente una, e cioè che al momento dell’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto) obbligatoria esse sono valorizzate sulla base delle ultime quotazioni di mercato, mentre le azioni con diritto di voto sono invece per norma allineate alle condizioni di cessione del controllante.
Mi sono detto “inventiamo un’azione che non dia diritto di voto ma dia un privilegio d’altro tipo, cioè economico”.
Però si deve fare in modo che prima di ogni possibile OPA obbligatoria questa azione sia diventata ordinaria, con norma statutaria non modificabile se non da parte degli azionisti di questa categoria speciale.
Se la diagnosi è corretta, la terapia è facile. Di conseguenza, sulla base di questa intuizione, la mia idea è poi diventata un programma di lavoro, sul quale si è faticato molto e complessamente, fino alla fase definitiva che ha portato a delineare uno strumento di una semplicità infantile. Cioè:
- emissioni di azioni senza diritto di voto;
- nel caso in cui si distribuisca il dividendo, si fisserà un extra-dividendo;
- diventano ordinarie nel momento in cui il soggetto controllante ‒ conditio per l’emettibilità ‒ perde il controllo, ovvero nessuno prende il controllo fino a quando l’altro non l’ha perso;
- può avvenire, invece, che si perda il controllo senza che nessuno lo prenda ‒ ancora scatta la clausola per l’emissione.
La ratio è che io ho bisogno di soldi per crescere e il progetto può sparire se diventa contendibile, quindi io non voglio essere contendibile. Nel momento in cui io perdo il controllo, anche per una pura diluizione, cade la motivazione e mi rendo contendibile; di conseguenza da questo momento tutti sono uguali, tutti ordinari.
È semplice: è bello e, rispetto alle azioni a voto plurimo, le Azioni Sviluppo non permettono di esercitare il voto (che resta esercitabile dalle sole azioni ordinarie) ma comportano una diluizione della proprietà. Non è una critica, ma un dato di fatto: queste azioni fanno diluire la proprietà senza perderne il controllo e nel momento in cui il controllante rinuncia o non gli interessa più il progetto (in seguito ad una crescita massiccia al punto tale da non avere più il concern di partenza, diventando una public company vera e quindi senza più la preoccupazione legittima di un recover dello stile), si diventa tutti uguali, anche senza OPA obbligatoria. Le azioni di fatto sono diventate ordinarie ancor prima dell’OPA obbligatoria che ne fa perdere il controllo.
Ritorniamo alla domanda iniziale: perché questo strumento non viene utilizzato? A mio parere il mondo della finanza non ha simpatie per uno strumento con queste caratteristiche in quanto è preferibile che si metta in vendita la propria azienda.
Per me è una profonda delusione, perché in concreto non si è mai scommesso sul possibile successo di una proposta che da un punto di vista economico vale maggiormente:
- redditualmente (maggiorazione percentuale sul dividendo);
- nelle negoziazioni, in quanto il flottante delle Sviluppo eccede il flottante delle Ordinarie al netto di quelle che non sono flottanti;
- patrimonialmente (inclusione nell’OPA obbligatoria e trasformazione automatica in Azioni Ordinarie).
La questione quindi, a fronte della facilità e semplicità delle Azioni Sviluppo, non è “perché nessuno le usi” ma “perché nessuno le proponga”. Di conseguenza, come possono le persone conoscere questo strumento senza che avvenga l’intermediazione delle banche? Non è la complessità la risposta al mancato successo di queste azioni, infatti io credo che ci sia un’unica ragione: un’azienda venduta può rappresentare un alto “valore”. Moralmente inaccettabile e non condivisibile da parte mia, ma il dato di fatto è semplicemente questo: le Azioni Sviluppo sono l’invenzione di uno strumento finanziario non speculativo, ragionano sul medio e lungo periodo e possono essere un valido aiuto per lo sviluppo delle aziende.
Quando ho studiato questo strumento con Mediobanca, Assolombarda e lo studio Bonelli Erede Pappalardo, sembrava veramente di aver trovato l’uovo di Colombo; era impensabile andare avanti solo chiedendo i soldi alle banche, serviva assolutamente uno strumento in grado di ricapitalizzare l’azienda senza perderne il controllo.
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