18
Feb
Lavoro produttivo ed interesse finanziario, è ancora possibile conciliare questi due mondi? La finanza può essere d’aiuto al settore imprenditoriale oppure si è ormai sganciata da qualsiasi parametro reale?
Abbiamo assistito negli anni scorsi ad uno scollamento tra finanza e sistema produttivo e i risultati di questo distacco sono stati pesanti per tutti, in tutti i sensi e a tutti i livelli. Serve un riallineamento perché è indiscutibile che la finanza sia uno strumento per sostenere l’impresa ed il mondo produttivo. Credo che, dopo la crisi dei mutui subprime e le bolle finanziarie, siamo tornati ad una dimensione più naturale. Oggi, ad esempio, c’è molta attenzione per le attività produttive manifatturiere, oltre ad un interesse verso le attività sostenibili. La finanza ha un ruolo essenziale, infatti, non solo per la sostenibilità delle imprese ma anche per la sostenibilità del pianeta stesso, finanziando quelle attività – green economy, rinnovazione energetica – che operano affinché la vita umana su questo pianeta sia sostenibile, i cui criteri di valutazione si basano sulla loro capacità di creare valore: esistere, resistere e promuovere lo sviluppo umano a lungo termine.
La finanza, per la sua stessa sopravvivenza, è cosciente che serve un cambio di tendenza? È realmente possibile un’etica nella finanza che rimetta l’uomo al centro o ci stiamo avviando ad un mondo sempre più squilibrato e caotico, destinato ad implodere?
Le ultime crisi hanno rivelato che ci sono delle linee rosse da non oltrepassare, proprio per un discorso di sostenibilità. Anche il mondo finanziario è cosciente che non è più possibile fare finanza in un certo modo. Questa maggiore consapevolezza è maturata soprattutto grazie al reality check pesante di questi ultimi anni, che ha palesato l’esistenza di una linea gialla che fa da spartiacque tra la finanza e la finanza fine a se stessa. Quindi, al di là di eccezioni e fuoriuscite, esistono delle linee guida in mezzo ai due confini della sostenibilità delle imprese da una parte e degli standard etici dall’altra, standard sempre più usati per valutare la capacità di un’impresa finanziaria e dei servizi finanziari.
In riferimento a questo, qual è il rapporto tra finanza speculativa e finanza reale? Il QE, con le sue immissioni di liquidità, rimane uno strumento elitario che favorisce l’oligarchia delle grandi imprese, marginalizzando le PMI?
Per quanto riguarda il primo punto, la finanza ha al suo interno fenomeni speculativi fisiologici in genere da accettare, difficile dare giudizi etici e morali sugli strumenti usati, come ad esempio l’impiego speculativo dei derivati. Come dicevo prima, la prima funzione è assolutamente quella di sostenere le imprese e le attività necessarie per l’esistenza stessa del nostro pianeta. È un problema, quindi, di bilanciamento e focus principale della finanza.
Passando al secondo punto, la nostra azienda si è trovata spesso in difficoltà con i piccoli fornitori. Nonostante avessero una previsione di business che gli assicurava lavoro per almeno quindici anni, ci siamo visti costretti a subentrare per fare in modo che i fornitori avessero la liquidità per continuare, anche se il nostro ruolo non dovrebbe essere quello di una banca. C’è una liquidità enorme che però non arriva, effetto del distacco che si è prodotto tra finanza e attività produttiva. Viviamo una contraddizione: tassi bassi e denaro disponibile ma accesso per le PMI difficile e complicato.
Quanta porzione di finanza serve al nostro paese per recuperare il livello produttivo? Esiste un pericoloso disallineamento tra competenze in campo finanziario dei dirigenti delle PMI e velocità di evoluzione degli strumenti del sistema finanziario?
Il sistema italiano sconta questa arretratezza nei confronti dell’impresa e delle modalità per accedere al finanziamento. Inoltre le scelte della finanza sono distaccate da una logica d’impresa, essendo legate ad altre logiche, accentuate dalla crisi. Per fare impresa tuttavia è necessaria la finanza, che deve essere di supporto e non viceversa. Il sistema economico italiano è peculiare essendo fatto quasi esclusivamente da PMI e manifattura, e questo comporta un prezzo maggiore da pagare in momenti di crisi, perché, pur essendoci gli strumenti, è difficile avere un sostegno finanziario dal sistema bancario italiano. Si parla da tempo di adeguamento ed evoluzione del sistema finanziario, ritengo che crisi, post-crisi e post-recessione possano essere occasione per ridisegnare il sistema bancario italiano, e le regole che arrivano da Bruxelles possono essere sicuramente d’aiuto.
D’altronde la finanza non è l’unico elemento determinante per la crescita, in quanto l’aspetto culturale e l’avversione al rischio hanno un peso notevole nel bloccare una ripresa. Quando la finanza è realmente un aiuto? Quando il rapporto tra ente finanziario banca e azienda è stretto. Non basta il business plan, l’idea, ci vuole la relazione, questo è il punto critico del sistema perché non viene valutata la reale capacità di crescita ma la relazione finanziaria preesistente. Questo meccanismo fa da filtro e da tappo per la crescita dell’imprese, come ad esempio le start up che non hanno una storia finanziaria precedente. Il capitalismo relazionale è in antitesi con il capitalismo finanziario, un sistema così non può funzionare perché è come se ci fossero due mondi paralleli e sbilanciati. Una coesistenza difficile, dato che in Italia si preferisce tuttora giocare sul terreno del capitalismo relazionale, fattore che ha inibito una finanza più di mercato e di sistema, necessaria per finanziare attività con una dose elevata di rischio.
Quanto il capitalismo relazionale incide nel Sud? La finanza può aiutare il Mezzogiorno a risollevarsi, smorzando l’attuale disallineamento con il mondo produttivo che ha depauperato il suo territorio e le sue risorse?
La realtà della nostra azienda dice che è possibile. La finanza non è il driver principale, arriva dopo, quando cioè il terreno è già spianato da un approccio di sistema, da scelte politiche e da un criterio concorrenziale. La relazione è infatti mancanza di concorrenza.
Inoltre i driver per l’attrazione di investimenti cadono perché mancano le certezze, dei punti di riferimento stabili, dato che nessuno può garantire stabilità per cinque anni, fattori indispensabili per un certo tipo di investimenti. Altro dato che pesa moltissimo è la posizione del nostro Paese nel rankig della corruzione, elemento che mina la credibilità dell’intero sistema. Quanto è credibile il Sud? Quanto può mantenere le promesse? La visione strategica è uno degli elementi al vaglio da parte del Governo per cercare di rendere il Sud attraente per gli investitori, ma non è semplice perché il capitalismo relazionale è fortemente radicato, è come un iceberg che si dirama.
Il costo del lavoro in Italia non è un problema – soprattutto in riferimento ai settori avanzati come il nostro, in cui gli ingegneri qualificati costano meno rispetto a quelli cinesi -, il problema è appunto la credibilità di sistema percepita all’esterno. Questo crea, in una situazione di negoziato, un disallineamento tra ciò che pensiamo di essere e come invece ci percepiscono in realtà.
Un’azienda forte, che crea occupazione, può premere politicamente per cambiare le linee guida?
Noi premiamo sul Governo ma la difficoltà è enorme perché a livello centrale la burocrazia soffoca ogni tentativo di cambiare le regole; molto meglio a livello regionale, ad esempio in Puglia abbiamo avuto un riscontro positivo in termini di velocità di supporto e di controllo su tutto il processo.
L’Italia deve creare certezza e affidabilità, oltre ad imparare a confrontarsi con il mondo dato che gli interlocutori italiani hanno dati e idee vecchie di almeno dieci/quindici anni.
Ad esempio, avere un’industria aerospaziale è una priorità non solo economica ma anche geopolitica. La posizione attuale dell’Italia è media ma non c’è la consapevolezza che ci si può permettere di perdere nemmeno una posizione, dato che sarebbe impossibile recuperarla. Non esiste una strategia di mantenimento e manca una elasticità di sistema che ci permetterebbe di riprendere le posizioni perse. Tutto è lasciato al caso, non c’è prevenzione e non c’è la protezione di alcuni asset.
L’industria nazionale è ormai un concetto perdente dato che il mercato interno è debole, ma è fattibile sostenere il sistema attraendo investimenti stranieri, che non sempre sono predatori. Non possiamo più permetterci di crogiolarci in un vetusto concetto nazionale, perché è perdente in partenza per il ruolo che ha il nostro Paese a livello mondiale. I flussi di investimenti stranieri, soprattutto in ambiti tecnologici competitivi, possono aiutare a far crescere un’azienda, rendendola concorrenziale senza snaturarne la natura, consentendole di mantenere l’occupazione. In Italia però non abbiamo grandi capacità come decisori politici, permane una sorta di provincialismo. È invece indispensabile una politica industriale nazionale ben precisa, una strategia che massimizzi le competenze per far crescere il business qui. Senza isterismi, è indispensabile capire chi siamo e dove siamo oggi per poter progettare e costruire il futuro.
Antonio De Palmas, Presidente di Boeing Italia, responsabile del consolidamento della partnership tra Boeing e l’Italia, dello sviluppo delle attività dell’azienda nel Paese e di nuove opportunità di business.
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03Oct
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