18
Feb
Lei ritiene che sia possibile un dialogo costruttivo tra mondo produttivo e mondo finanziario?
All’atto pratico sembrerebbe un incontro impossibile perché, pur essendo due realtà che si incontrano tutti i giorni, è evidente che non si comprendano. Le banche purtroppo non conoscono le imprese, e le imprese non si aprono al mondo finanziario, fondamentale per un dialogo di reciproca conoscenza. In Italia noto, a livello imprenditoriale, una persistente e dannosa mancanza di cultura finanziaria, oltre che di trasparenza. Per realizzare un cambiamento all’interno delle aziende, vanno favorite cultura, formazione manageriale e ricambio generazionale. Inoltre, la cultura padronale vigente all’interno di un’impresa familiare spesso non collima con un innesto di competenze manageriali esterne. Come si supera questo? Vanno compensate le lacune esistenti in merito alle competenze finanziarie di base, dato che sarebbe già un gran passo in avanti se ci fosse la cultura imprenditoriale ad aprirsi, ad esempio, al capitale di rischio, anche con quote minoritarie. Questo deficit culturale, unito al fatto che non si crea rete tra le aziende, fa sì le nostre imprese siano molto piccole, nane direi, salvo rare eccezioni, con i casi di successo imprenditoriale legati, perlopiù, all’estro e all’inventiva dell’imprenditore, senza una reale continuità. È, in poche parole, un problema-Paese, legato soprattutto alla manifattura tradizionale.
Quale l’effettiva responsabilità delle imprese e quale quella della finanza?
Le imprese hanno sicuramente molta responsabilità, e la finanza d’altra parte non guarda alle imprese, o perlomeno non lo fa con la dovuta attenzione. Le due realtà, produttiva e finanziaria, non si sono incrociate: in finanza non ci sono manager che provengono dalle imprese e che conoscano la realtà industriale, e la finanza è spesso “inquinata” da personalismi, favoritismi e localismi, che non guardano di certo al merito.
La realtà della mia azienda vive all’interno di una logica di gruppo di respiro internazionale. Quanto è importante questo fattore? Moltissimo, penso che il tanto temuto investimento estero in Italia sia fondamentale in questo momento storico. Molte nazioni hanno un tridente d’attacco nelle istituzioni, che dimostrano una notevole attenzione verso il commercio e la grande distribuzione, con canali di distribuzione nazionali che fungono da trampolino di lancio, inesistenti in Italia.
Mancando simili condizioni per poter essere operatori globali attivi, come può la finanza essere un promotore di internazionalizzazione nel nostro Paese?
A mio parere, la finanza potrebbe avere un ruolo importante creando dei poli di aggregazione, anche di industrie differenti ma collegate da sistemi distributivi. Sta già nascendo qualcosa in questa direzione, come ad esempio il distretto commerciale creato dal Gruppo Intesa Sanpaolo negli Stati Uniti, grande porta per i nostri mercati. I nostri produttori non sono in grado di creare in autonomia una rete di organizzazione commerciale comune capace di vendere anche prodotti diversi, come ad esempio pasta, olio e salumi. Sicuramente le istituzioni possono mettersi al servizio di questi progetti, per creare realtà condivise e meno rischiose, che sfruttino al meglio le risorse.
Esistono dei momenti di libero confronto tra le banche e gli imprenditori, e ancor prima tra le imprese stesse?
Ritengo che oggi l’incontro avvenga tramite le associazioni di categoria, prevalentemente i sindacati. Entrando nelle logiche d’impresa industriale, è faticoso riuscire a comprendere un’organizzazione industriale che rimane molto complessa e macchinosa, poichè affrontare le problematiche aziendali equivale a passare attraverso la morsa di una stratificazione piramidale. Oggi il peso del dato tecnico-industriale è minore, poiché le problematiche sono tutte di natura commerciale e di innovazione tecnologica. Nel nostro Paese siamo in grande ritardo sulla digitalizzazione delle imprese, ma si deve capire che al giorno d’oggi la tecnologia, attraverso le intelligenze artificiali, consente un’organizzazione più efficiente. Questa innovazione purtroppo non è ancora in atto, eppure è l’unica strada per essere competitivi. In Germania, ad esempio, la digitalizzazione delle aziende del nostro settore, con l’informatizzazione di tutti i processi, ha velocizzato i processi e ottimizzato le risorse. Come uscire da questa morsa? Servono le persone, perché sono le persone che fanno muovere le cose. Ma chi riunisce coloro che hanno visione e capacità? Dove radunarsi? È necessario trovare luoghi di dibattito dato che è esautorato il ruolo della politica come aggregatore.
L’Istituto IASSP è infatti un centro di discussione e di risposte concrete e strategiche, nato proprio per colmare un vuoto prima riempito da ideologia e religione, ora centro cavo che la politica non riempie più.
Si parla sempre di più di un assottigliamento della classe media e della borghesia imprenditoriale, con un’oligarchia capitalistica ad imporsi. Le fusioni e le acquisizioni sono l’unica strada da percorrere per permettere alle piccole e medie imprese di tenere il passo con il progresso?
Nei mercati globali le dimensioni contano perché permettono di muoversi con un’adeguata capacità finanziaria. Nel nostro Paese le imprese, date le dimensioni, fanno fatica, anche perché come dicevo mancano, strutturalmente, reti globali di distribuzione. Probabilmente le fusioni e le acquisizioni sono una strada, ma lo sono anche i mercati emergenti, con l’utilizzo di nuove tecnologie e di nuove idee da espandere a livello mondiale. La rete è indubbiamente un’ottima chance per le realtà piccole.
In America esistono degli incubatori finanziari che mettono a rischio solo una parte di capitali, mentre una parte ritorna. Da noi invece le start up falliscono perché sono senza bilanci e non vengono quindi finanziate dalle banche: bellissime idee che non solo non decollano, ma crollano. Qual è la competenza vera delle nostre banche nazionali? Come possono aiutarci? Negli anni passati non hanno dato prova di saperci fare, come possiamo quindi contaminarci, portando la cultura d’impresa nella banca e viceversa?
Come se ne esce? La sua azienda senza la rete globale di governance internazionale, con i capitali che arrivano dalle borse di paesi emergenti, sarebbe sopravvissuta? Quanto è stata utile la finanza nel suo gruppo?
La finanza non ha influito per nulla, non “conta” perché siamo all’interno di un grande gruppo che, per le sue dimensioni, riesce ad essere autosufficiente a livello finanziario. Dato fondamentale questo, che ci ha aiutato a gestire i processi produttivi con autonomie finanziarie, creando vitali flussi finanziari e possibilità di esplorazione del business. Di conseguenza, la mia azienda, pur bruciando liquidità, ha avuto il tempo di ristrutturarsi e ripensare i modelli di business e strategie. Oggi, non solo siamo indipendenti finanziariamente, ma produciamo anche cassa. L’imprenditore italiano può permettersi il lusso di rischiare il proprio business? Le banche quanto sono disposte a rimetterci come proprio patrimonio per supportare un’azienda, senza far ricadere il carico del costo alla collettività? Attualmente noi siamo immessi in un circuito nel quale le aziende hanno socializzato le perdite per l’incapacità di stare sul mercato, a discapito dei fornitori, dei dipendenti, delle banche, e quindi ancora dei risparmiatori.
La finanza speculativa, intervenendo su realtà decotte, promuove la deindustrializzazione e depauperizzazione. Possibile conciliare l’etica alla finanza?
Difficile vedere il lato etico della finanza, perché la sua necessità è il ritorno del capitale investito nel minor tempo possibile e con il maggior profitto. La finanza etica sarà quindi sempre una nicchia. Oggi, inoltre, non è possibile una previsione sul lungo periodo, siamo massacrati e pressati sul breve periodo, sempre più ridotto. Questo da un lato toglie all’industria la capacità di pensare progettualmente e strategicamente, dall’altro le banche non investono sul futuro. Il rischio è una perversione del sistema. Infatti, attualmente il potere è sbilanciato verso la finanza perché questa gestisce i flussi globali, schiacciando le realtà industriali. L’auspicio è che, in Italia, qualcuno si faccia carico di trovare momenti e luoghi nei quali confrontarsi a più livelli. Ci riusciremo? Dipende dalla volontà delle persone, più ne parliamo, più è reale la possibilità di riuscita.
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03Oct
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