20
Feb
Il fondamento di ogni riforma:
“Risentire il fascino estetico della moralità”
Benvenuti in tempi interessanti, infierisce Slavoj Žižek nel titolo di un suo libro. Ma gli ostinati del bicchiere mezzo pieno giurano che vi sono anche delle opportunità, cosa verosimile se non si considerasse fatale lo stato di fatto, se sapessimo liberarci dalla retorica dell’immodi- ficabilità delle cose, soprattutto se sapessimo dove andare.
Leggiamo sul marmo di Pario: “Non c’è alcuna felicità senza libertà, né libertà senza coraggio”.
La cosa avrebbe senso se sapessimo che fine hanno fatto queste tre parole – felicità, libertà, coraggio – così vincolate tra loro dall’epica classica. In tempi di carestia tutto pare arretrare, definitivamente. Il discorso politico recede nel privato, ultimo ridotto dell’io, nella forma dell’interesse particolare, figura dell’autismo ma avveduta, confortata dall’accredito del conformismo, di così fan tutti proprio nel ventre del consumo. Tutto preme affinché la dimensione del privato abbia la meglio su quel sociale così invasivo quando aveva invece traviato o accolto la volontà e la rappresentazione delle generazioni passate.
“Una delle reazioni ansiose alla globalizzazione che toglie i limiti al mondo – scrive Luigi Zoja –, è stata la valorizzazione estrema delle quattro mura […].
La modernizzazione dell’Occidente ci isola anche nel tempo – e dal tempo – in un presente puntiforme e solitario. Per chiuderci nelle mura del presente si annullano gli orizzonti temporali: passato e futuro”.
La politica si è allontanata dal pensiero e non solo da quello delle giovani generazioni.
Il cammino del mondo non è più pensato dalla politica. Per Edgard Morin la classe politica si accontenta dei rapporti di esperti, delle statistiche e dei sondaggi. Non ha più pensiero. Non ha più cultura. Non sa che Shakespeare la riguarda. Ignora le scienze umane. Ignora i metodi che sarebbero adatti a concepire e a trattare la complessità del mondo, a legare il locale al globale, il particolare al generale.
Priva di pensiero, si è messa al rimorchio dell’economia. Come sosteneva Max Weber, l’umanità è2passata dall’economia della salvezza alla salvezza tramite l’economia .
La società stessa sembra una galassia cava. E l’Italia, pensava con lungimiranza Italo Calvino, affacciata su questo vuoto vive bene o male da anni, ma con costi sempre più pesanti che altrove, perché per gravitare su un centro pneumatico ci vorrebbe una società molto più solida.
Se il centro è vuoto, cosa tiene insieme la nostra società?
Il nichilismo stesso. Proprio perché ci lascia credere a tutto, indistintamente e senza priorità valoriale, instillando l’agevole indifferenza. Non ha più bisogno di un magnete spirituale, un ubi consistam, come lo furono il mito, Dio, lo stato sovrano, l’ideologia e la democrazia. Sì, anche la democrazia, ossia la possibilità che possa esistere una cura delle cose pubbliche in pubblico, secondo la definizione di Norberto Bobbio, quindi sempre in potenza, mai veramente realizzata.
Infatti viviamo in piena post–democrazia:
La post–democrazia, ampiamente annunciata dal nichilismo moderno, è variamente nominata perché non è una cosa sola: democrazia senza popolo, democrazia degli spettatori, dei supermercati, società/ democrazia liquida, del rischio ecc.
Mentre in ambito economico la sua humus è quella della catallaxis di Hayek, del neoliberismo del Washington Consensus, del laissez faire ecc. La stessa democrazia forse è stata solo un ideale a cui tendere, un simulacro, cosicché la sua forma succedanea è soltanto la sua attualizzazione più complessa e quindi più ambigua, c’è solo da sperare che la cornice civile per il dibattito politico sia ancora salvaguardata.
La politica riguarda sempre più il “come”. Come condurre la vita politica, come gestire la complessità e le crisi. Il come non è che il modo di (di)mostrare agli elettori. È il modo di apparire. Il come è una questione di stile, è modalità estetica resa ultravisibile dai media.
Attenzione però, il “come” sono i costumi, il comportamento, la morale e tutto il fronte dei giudizi pubblici, infine il consenso. Nei Paesi a tradizione democratica, tutto ciò conta quanto per i tempi di Demostene, conta più delle stesse finalità i cui esiti sono sempre più imprevedibili e in fondo postumi.
Il fine è il consenso quindi, nel suo riposare sul legame tra i conte- nuti idealpolitici e il marketing.
La cosa si volge tutta verso la personalizzazione della politica, che assume sempre più la forma della rappresentazione. È il tema sovrabbondante del leader, della sua necessità simbolica concentrata, in cui fatalmente si scolorano tutti i contenuti di una democrazia dialogante – ma già questo tema è in netta contrapposizione con la democrazia Greca, dove colui che aveva una fama eccessiva veniva ostracizzato proprio per i pericoli che l’eccesso comporta. I contenuti oggi sono dettati da altro.
I veri protagonisti, nel bene e nel male, non sono più le idee, le ideologie, le visioni o i progetti politici, ma sono le nuove grandi con- trofattualità per lo più imprevedibili: la globalizzazione, con tutto il corredo di nuove potestà e di nuove instabilità, l’internazionalizzazione dell’onnivoro sistema speculativo e dell’impresa finanziarizzata, e quindi l’impasse di ogni stanzialità posta al fondamento della democrazia e del lavoro.
Il vuoto via via lasciato dalla politica dei contenuti sarà occupato dalle tecniche, dai nuovi valori che esse sapranno esprimere. La tecnificazione universale è, oltre ogni giudizio, il nostro domani con altre instabilità.
Nella post-democrazia non c’è solo una mutazione della possibilità politica, dettata anche da queste entità incontrovertibili, c’è la necessità di gestire un ambiente sociale attraversato dalla sfiducia nella dialettica degli interessi, dalla diffidenza rispetto al dialogo intraumano e da una fatale ambiguità che oscura sia ogni philia, sia la stessa razionalità dell’interesse.
La democrazia è ancora qui, ma per inerzia, cui non badiamo troppo come per tutte le cose non conquistate al giusto prezzo.
La democrazia indiretta è così un lascito della storia, un adattamento automatico della società a precondizioni date, a criteri sempre più nominali di libertà, più raramente di equità e ancora meno di fraternità. Così si è ritenuto inessenziale una pedagogia della democrazia. Forse perché crediamo che la società aperta non abbia più nemici, una volta liquidato il materialismo storico.
Ma la costellazione dei significanti rischia di spegnersi come luci di stelle morte se non si dà valore al valore. Ogni individuo deve far suo il patrimonio culturale reputato significativo, lo deve in un certo senso ricreare daccapo, dentro di sé, come se fosse la prima volta.
La vox populi è sempre la vox hominum.
È ancora la democrazia che sa raccogliere la necessità e la dignità umanistica della cosa comune. Essa – afferma Jean Luc Nancy – è “in primo luogo il nome di un regime di senso, la cui verità non può essere sussunta in nessuna istanza ordinatrice, né religiosa, né politica, né scientifica o estetica, ma che impegna interamente l’“uomo” in quanto rischio e chance di “se stesso” […]. Questo paradosso mette bene in luce che cosa è in gioco: la democrazia è aristocrazia egualitaria. Questo primo senso del termine assume un nome politi- co solamente in modo accidentale e provvisorio; in secondo luogo, il dovere di inventare la politica non dei fini […] ma dei mezzi per aprire o mantenere aperti gli spazi della loro messa in opera”4.
Sono soprattutto due le forze promotrici esistenziali che invitano la persona a essere presente a se stessa:
la necessità, la cieca anankè, talmente potente che si determina sen- za bisogno del concetto, e l’orgoglio di sé, il thymos, il rispetto verso se stessi, paradigma di una particolare cognizione di dignità.
La necessità, come si sa, sale dai bisogni basici a quelli psichici e culturali superiori, ciò che cambia forse è solo l’investimento intellettuale.
L’orgoglio di sé non riguarda solo la propria singolarità, ma insiste anche sull’appartenenza, su un io in quanto nazionalità, rappresentato dalla propria storia e identità collettiva, dalla propria cultura.
Anche da qui può crescere il sentimento dell’indignazione. Sapere ciò che è intollerabile proprio perché conosciamo ciò che ci spetta, ossia perché sappiamo ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Tali condizioni non sfuggono al principio di indeterminatezza e in questo senso sembra trapeli un esito inaspettatamente universalistico della stessa condition humaine, ovvero nel fatto che gli esseri umani non sono distinti sul piano trascendentale, mentre è la casualità che governa l’esistere.
In questo habitat malfermo l’io può sembrare un assoluto al quale è riservato un destino unico nell’universo, mentre quelle due sillabe – io –, che lo designano in senso permanente, forse non sono che un “mero avverbio di luogo”.
Nel bel mezzo del tunnel più oscuro dal dopoguerra a oggi, dobbiamo credere che proprio in Italia, la patria dell’inconcludenza politica, si possa ancora parlare di riforma della democrazia da una posizione tradizionalmente disincantata, ma forse proprio per questo priva anche di ipertrofie patriottarde o veramente credenti.
È possibile che una capacità di adattamento proverbiale, una col- lera malcelata e una indignazione a volte solo letteraria, possano in- nescare una reazione a catena nel più imprevedibile laboratorio sociopolitico del mondo? Dopotutto chi avrebbe scommesso sui nostri successi post-bellici?
Dobbiamo almeno riconoscerci una specie di antifragilità (un bel neologismo che esprime la capacità di adattamento nelle situazioni critiche, creato dal filosofo empirico Nassim Taleb: qualunque cosa tragga più vantaggi che svantaggi dagli eventi casuali e imprevedibili, da alcuni shock, è antifragile), una propensione atomistica che però ci ha sempre consegnato impreparati alle ritorsioni del caso, fors’anche un’eco dell’amor fati. Non c’è da compiacersi, ma quando i fattori di stress si riducono, i sistemi complessi paradossalmente sono destinati a indebolirsi.
Il nostro mondo, continua Taleb, ci ha spesso nuociuto con politiche top-down – “illusioni sovietico-harvardiane” –, che rappresen- tano, ne più né meno, un insulto all’antifragilità dei sistemi. Un po’ come nelle oscure suggestioni di Spengler, il sogno sistemico può partorire mostri.
Tutti vorremmo disporre di una nuova teoria politico-economica in grado di elaborare risposte in controtendenza con le invincibili imposizioni dettate dalle nuove sovranità, i mercati, la UE e tutta la ridda degli acronimi sovranazionali che non fanno che sancire l’esclusione del demos dalle scelte che contano.
La domanda non è più “che fare?” Ma di nuovo: cosa vogliamo mettere in quel centro cavo della nostra società perché diventi la no- stra casa, la nostra patria?
Vorremmo qualcosa che vada al di là di una guida al project work per quanto illuminata.
Qualcosa che dentro i vincoli severi delle condizioni date sappia af- frontare anche le problematiche di senso, quelle incognite che possono tenere insieme una società.
Sto parlando delle ragioni di quella presunzione concettuale che è la filosofia politica, ciò che la terra eletta delle idee, l’Europa, ha sempre cercato di elaborare riconoscendo in esse il compito di driver che lumina e infine governa il divenire storico.
Ciò che conta è avere una visione, una concezione, con cui conformare l’avvenire.
Il pericolo che le idee si possano mutare in plagio ideologico non deve annichilire la speranza di un buon uso della ragione progettante. Non è ancora giunta l’ora in cui l’intelligenza più analitica possibile ovvero l’iper ragione artificiale possa governare la complessità, come nelle congetture di George Dantzig.
Le idee sono ancora il nostro futuro, la nostra liberazione, il nostro DNA utopico creativo, soprattutto ora che il dialogo intraumano è infinitamente facilitato. Habermas parla di comunità dialogica in senso etico, oppure di comunità elettive o specialistico-funzionali integrate.
L’integrazione dialogica universale può darci la possibilità, anch’essa una congettura, che si possa superare il riduzionismo delle competenze attraverso una ragione che ricomponga la complessità in una prospettiva di senso. Dopotutto alla base delle grandi congiunture storiche ci sono sempre concetti, spesso semplificati in parole chiave, in sintomi semantici nel linguaggio della comunicazione (la parola felicità, oggi quasi impensabile, sostanziava la Carta costituzionale statunitense, per non parlare della triade della Rivoluzione francese, il thymos civico della classicità…).
La frammentazione tecno-disciplinare del mondo ha consentito una incontenibile accelerazione delle potenzialità tecniche e produttive, ma infine lo scopo, l’essenza della tecnica, è sempre l’incremento illimitato degli scopi. L’orizzonte trans-umano è così segnato.
Tutto ciò non è né bene né male, in fondo la fatalità della specie è che tutto ciò che l’uomo pensa o sogna si realizzerà.
Si tratta di riconoscere l’unità profonda nel cuore della diversità e la diversità nel cuore dell’unità. Per Morin l’unità umana va compresa sul piano antropologico attraverso le diversità individuali e culturali. La conoscenza è un processo che oscilla tra separazione e unione: “Proprio in quanto il nostro modo di conoscenza disgiunge gli oggetti tra loro, ci è necessario concepire ciò che li interconnette […]. Lo sviluppo dell’attitudine a contestualizzare e globalizzare i saperi diviene un imperativo dell’educazione”.
È una sfida propriamente etica, dato che “l’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato, così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame organico con la propria città e i propri cittadini”5.
A questo punto si deve fare un altro passo verso la riforma della cultura politica alla luce di una riforma del pensiero.
Si può prospettare una piccola utopia, intima e insieme universale, che possa porre al centro della civiltà occidentale una particolare declinazione del valore. In modo che a ispirarci sia la stoica cura sui verso l’artefatto di se stessi, irripetibile tessera esistenziale di un mosaico terreno, propriamente politico. Non tanto un principio di dignità personale, quanto l’apodittica che, alla fine, ogni personale è sociale. (Sul piano etico non può esserci un giusto in una società di ingiusti e viceversa).
Se pensiamo invece sia la ragione efficiente la guida della teoria politica, la cosa che la rende funzionale come ogni strumento efficace, allora è questa ragione a porsi come vero fine. Ma sarebbe ridurre la politica a pratica di governabilità, di amministrazione, far coincidere il mezzo con il fine.
Assistiamo dovunque a una rimozione di ogni discorso sui fini. Coerentemente le personalità “tecniche” soprattutto in possesso dell’ini- ziativa economica sono le più accreditate, nonostante la mistica della ragion tecnica (o di una gestione tecnocratica della cosa pubblica) abbia bene illustrato i propri limiti.
Per sua natura la tecnica esenta la democrazia, decreta per dogma l’inadeguatezza e l’incompetenza delle vaste moltitudini (la “gente comune”), ormai astrazioni numeriche, l’impraticabilità alla luce della ratio di quel “sapere di tutti su tutto” della classicità.
In sostanza il discorso sui fini è ricacciato nel limbo delle congetture astratte, metafisica teoretica, nuvole per Aristofane, ciò che ha ragion d’essere è solo quella ragione efficiente.
Tecnica retorica, tecnica burocratico-amministrativa, tecnica finan- ziaria e bancaria, con linguaggi sempre più inaccessibili in un formalismo à la Frege, attualizzato con gli interessi dalla finanza quantistica, come i virtuosismi predatori del club Bourbaki, o della signora della finanza d’azzardo, Nicole El Karoui.
Senza Dio tutto sarebbe concesso per Dostoevskij, senza una luce assiologica tutto sarebbe ammesso. Cosa può fermare questo sapere dal diventare la copertura impenetrabile degli interessi personali o giustificare pratiche corporative e autoreferenziarie?
Nulla ci assicura che le tecniche ci dispensino dall’errore, come ci ha edotto il ’900, dal fare arretrare la democrazia a cieca procedura.
Tanto varrebbe consegnare le chiavi della città agli operatori dell’economico, preferibilmente bancario finanziario, o agli interpreti del marketing, i politici o gli amministratori del patrimonio pubblico più vocati a una brillante retorica politica. Una essenzializzazione della politica in nicodemismo del consenso.
Ritroviamo nel marketing politico un antico vincolo tra potere ed entertainment, uno spettacolare ripiegamento della democrazia di fronte alla ingestibile pressione della complessità (della mondializzazione).
Si affaccia quindi una nuova edizione del cesarismo, dove la collettività è tenuta a bada dalla distanza di una pratica amministrativa della politica professionale, dall’effervescenza di una sua rappresentazione mediatica, un “casting show delle ambizioni” (e qui l’Italia è veramente all’avanguardia).
Il consenso si regge sulla capacità di sedurre e sedare. L’importante è disattivare quel potenziale di collera della multitudine verso lo stato di fatto.
L’establishment mediatico ha cercato anche di infondere nelle masse un senso di colpa, che forse permetterà di accettare i rigori della recessione come espiazione necessaria, ma va accertato se chi di fatto “ha vissuto al di sopra delle sue possibilità” sarà la stessa persona che pagherà il debito. Va insomma ripristinato il nesso giustizia/democrazia.
Intanto nell’annus horribilis, il 2012, l’élite politica poteva senza im- barazzo esprimere, per l’ennesima volta, la volontà di cambiare gli italiani. Presumiamo in meglio!… Come ci manca l’arguzia di Spado- lini che avrebbe risposto immantinente: ma perché cambiare la nostra testa e non, per esempio, quella dei tedeschi che a volte è risultata più pericolosa?
Ma sul piano delle politiche estere siamo penosamente scoordinati mentre la cosiddetta divisione internazionale6 del lavoro può agevol- mente continuare la sua “campagna d’Italia” in una ben coordinata dissoluzione della nostra industria manifatturiera (in cinque anni di recessione abbiamo già perso oltre il 25% della nostra impresa produttiva). Come ai tempi del signor de Montaigne che, a dispetto dei suoi splendidi Essais, si dedicò al saccheggio del Belpaese.
Di vero c’è che si sta profilando un quotidiano recessivo sempre più tattile. Se la “fine del lavoro” è forse una profezia da retroguardia, di chi dimentica che la possibilità sta sempre più in alto della realtà, la necessità ci impone di fare i conti con la gestione del declino, o perlomeno di un contenimento dello Stato sociale, la gloria civile dell’Europa.
Nel frattempo stiamo vivendo la guerra fredda del debito, dove ogni Stato tenta a ogni costo di vendere il proprio debito sovrano a scapito degli altri; l’incendio è ancora in Europa riducendo in cenere le speranze che furono di Heinrich Heine, di Coudenhove-Kalergi o di Altiero Spinelli.
Il debito infatti non sarebbe affatto un problema se ci fosse sviluppo, lavoro, domanda interna: lo potrebbero comprare gli italiani, come hanno fatto i giapponesi col proprio debito sovrano che è molto più alto del nostro (2011-12: 13.500 MLD di Dollari).
Come in tempo di guerra il rapporto debito pubblico/PIL si è alzato al 113,7%, e non si sa come possa scendere senza l’ombra di una ripresa; è quasi identico a quello del 1943, in piena disfatta, che era al 112%. Mentre nel 1919, alla fine della prima Guerra Mondiale era al 139%7.
Siamo ancora in guerra. Guerra interna e guerra internazionale stanno decimando il popolo italiano.
“Ciò che si chiama neoliberismo – scrive il filosofo Peter Sloterdijk – non è nei fatti nient’altro che un neo-calcolo dei costi per la pace interna nei paesi capitalistico-socialdemocratici a “economia mista” di tipo europeo o del “capitalismo regolare” alla maniera statunitense. Questa prova ha condotto inevitabilmente al risultato che il lato occidentale delle imprese aveva pagato troppo per la pace sociale, sotto la temporanea pressione politica e ideologica dell’Est. Arrivò il tempo per le disposizioni che riducevano i costi. Disposizioni che miravano, secondo la loro tendenza, al cambio d’accento, dal primato della piena occupazione alla priorità della dinamica imprenditoriale”8. Infine, cosa già detta da Minsky e ben prima dal materialismo dialettico, all’assoluto della nuova rendita finanziaria, la sussunzione a fantasma del denaro, sempre più astratto.
La responsabilità priva di competenze è velleitaria, un agire che si rovescia in irresponsabilità, ma le competenze prive di un orizzonte di senso e di fine sono ottuse e forse più pericolose.
Tuttavia le strade dovranno alternarsi in biforcazioni e ricongiungimenti nella dialettica tra procedure disciplinari e aperture al senso complessivo delle finalità.
Di fronte alle grandi scelte saremo sempre inadeguati poiché la condizione umana è l’incompiutezza, la provvisorietà di ogni sapere, dinnanzi a ogni io pensante c’è la limitazione, c’è la sua stessa mancanza.
Il discorso sui fini non può che riguardare la razionalità degli interessi, sia nella generalità dell’umano, sia nella specificità dell’individuo in quanto appartenenza (territoriale, linguistica, culturale…). Ma, non solo, concerne anche l’insieme delle proprietà percettive e cognitive di ogni singola mente, infatti ognuno deve impiegare tutto se stesso per decidere su scelte significative, non solo la luminosa ratio, ma anche l’oscura psiche, l’esprit de finesse, e l’inarrestabile inquietu- dine dei sentimenti.
Il cuore della democrazia sta nel fatto di non trasformare le scelte politiche in scelte tecnoscientifiche. Di non ridurre la politica a governabilità, come si è detto, ad amministrazione della depressione.
Si tratta di superare la perversione della democrazia, oggi arenata nel rapporto tra consenso e governo di élite compromesse.
La maturità, in questa prospettiva, da un lato va verso la qualificazione dell’emersione di nuove classi dirigenti e dall’altro verso il potenziamento del giudizio dei più, il loro accedere progressivo a forme di validazione e qualificazione dei processi di scelta, ai dispositivi per il loro perfezionamento, in altre parole insiste sulla crescita di quella humus che sola può testimoniare e garantire la qualità di ogni processo civile a cominciare dall’avvicendarsi delle leadership.
Uno dei motivi dell’estendersi della corruzione, della concussione, della mala gestio è proprio l’allontanarsi delle classi dirigenti (ma anche dei corpi intermedi) dagli elettori, delle aspettative dei più, cosa ben diversa dal consenso. Un altro, strettamente connesso a ciò, va ricercato nel fatto che ogni trattativa tra Stato e impresa privata è coperta da procedure opache, da conti economici indecifrabili e appunto esoterici. Ma è proprio sul conto economico generale, non sul bilancio, che lo Stato ha rinunciato da sempre alla trasparenza.
In questo senso, ritornare al discorso sui fini è il dispiegarsi della coscienza, l’angelo di Benjamin verso ogni nuova pratica della politica.
È questo contenuto che indica la via alle cosiddette tecnicalità economico-procedurali o normative e non viceversa.
Ma intanto la fede della condizione postmoderna, riposta nell’economico e nella liturgia del potere-volere finanziario sovranazionale, orienta per inerzia e per debole adattamento anche il più oscuro privato.
Sennonché le priorità che oggi regolano il privato sono letteralmente sconvenienti, visto che non ripagano affatto le nostre aspettative.
Le aporie dell’economico sono il nostro scontento poiché non è possibile accettare, senza tornaconto, che l’ordine esistenziale sia occupato da un lato dall’ingordigia (nella solitudine dell’economico), e dall’altro dai sentimenti di frustrazione e di collera. Né si può attendere che siano le contraddizioni in sé a mandare in cortocircuito il contatto tra le forme autoindotte di predazione e le nuove masse d’ira che si stanno addensando.
Nulla sembra poter tenere più insieme la società postmoderna, il potere stesso si separa dalla politica, il luogo dell’autorità e della sovranità. Il potere reale ora vola libero nello “spazio dei flussi” (M. Ca- stells), sopra i confini dei vecchi stati nazionali, mentre la politica resta confinata al territorio, presidio affannato e invelenito di quel che resta della democrazia.
Qui entra in gioco il ruolo della formazione di una futura ideale classe politica, che prima e al di sopra di un sapere disciplinare deve riconoscere il senso, il verso quindi, della propria destinazione formativa.
Stupenda è l’indicazione di Peter Sloterdijk che riecheggia Machiavelli e Leopardi: “Bisogna tornare, come negli antichi, a risentire tutto il fascino estetico della moralità, pena la nostra decadenza culturale”.
Così anche il mio pensiero va pieno di rispetto e di devozione alla lettera che Machiavelli inviò all’amico Vettori, esattamente cinquecento anni fa, solo 20 generazioni orsono:
“Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia. Sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro”.
C’è uno stretto rapporto tra cultura ed etica, un vincolo segreto che porta al reciproco potenziamento. Non si può nemmeno concepire l’ipotesi di una cultura senza etica, e qualora avvenisse sarebbe un ripudio della cultura, un tradimento che si esprime nel plagio, nella dominazione intellettuale. Inconcepibile! Essendo l’essenza della cultura un corpo a corpo con l’inesprimibile, con l’infinito del non sapere, presuppone modestia e dedizione. Infine risulterebbe un suicidio della ragione, perché interromperebbe irreversibilmente il vincolo della gratuità che la cultura presuppone.
Essa infatti sta nella luce dell’eccedenza di sé, della pura donazione di quel surplus. Se c’è un’attesa di un ritorno è forse quella di un riconoscimento “spirituale” (e se c’è un esito venale è un prodotto di risulta, a volte persino inatteso).
La cultura è l’unico potere che non asserve.
Che potestà potrebbe avere l’opera d’arte, la letteratura o la musica, la saggistica o la ricerca scientifica? Cosa chiederebbe in cambio se non di essere ascoltata, condivisa? Essa è qui per iniziare il dialogo, aprire la nostra mente, liberarla dai propri limiti, dal banale, dalla ripetizione, dai loro mostri sofferenti.
Il figlio prediletto delle specie è qui per stimolare, per muovere la passione di conoscere, per dare più vita alla vita e infine per mostrarci la felice possibilità di essere – ognuno di noi – artefice (auctor et artifex) dell’infinito mistero della creazione, come pensava Teylhard de Chardin.
È Dante a riconoscere la grazia dell’ininterrotto vincolo spirituale nella catena generazionale: “Gli uomini tutti cui la natura ha infuso l’impulso ad amare la verità, sembrano dare il massimo valore al fatto di lavorare per i posteri, onde questi ricavino un arricchimento dalle loro fatiche, così come essi sono stati arricchiti dal lavoro degli antichi”9.
Non c’è libro, articolo, commento che non mi regali entusiasticamente qualcosa come, penso, nel disinteresse di un vero amico. Tanto mi basta per poter credere in ciò che sembra una fratellanza spirituale tra gli esseri.
Il patto intraumano del rapporto cultura-etica può liberarci anche dall’ansiotica affermazione dell’io, dalla miopia di un mero accreditamento convenzionale. Può resistere alla morte spirituale della persona e con essa alla “morte del prossimo”, quando il prossimo è consegnato a una vicenda di opportunismo o a un mero riscontro visuale di “paesaggio”.
Ma è una legge antropologica che fa giustizia di tutto ciò: l’uomo non esiste, esistono gli uomini, affermava perentoriamente Hannah Arendt. Dalla specie alla comunità dialogica precipita tutta la condizione dell’essere perché esso possa esistere.
Tra tante occasioni di riduzione della persona lo psicologo Luigi Zoja mostra cosa accade quando si spezza la catena culturale umana attraverso le memorie di alcuni capi indiani nell’America del Nord, dopo il loro soggiogamento.
“Dopo di ciò, […], non successe più niente, abbiamo soltanto vissuto… non c’è più niente da raccontare”. La cultura scomparve, – senza che niente la sostituisse e il vuoto venne occupato dalla depressione. Ma lo psicologo ribalta sulla nostra quotidianità tale riduzione dell’umano: “quelle genti che consideriamo “arretrate” non furono altro che l’avanguardia della condizione postmoderna”10.
È necessario essere elitari, ma elitari rispetto alla cultura, affrontando da eretici il tema alato dell’integrità, dote controintuitiva e pure molto più lucida e avveduta del nostro proverbiale disincanto.
Bisogna promuovere una “aristocrazia del pensiero”, che ribalti la modalità del nuovo scontro tra “nobili e ignobili”, tra coloro che sono favoriti dal censo, protetti dai privilegi di nuove caste, e coloro che dalla loro hanno solo il merito.
Alcuni pensano ancora a una democrazia degli Ottimati, una democrazia la cui classe dirigente sia dotata di una autorità spirituale. Pur sapendo che tale autorità non genera ipso facto consenso.
Così, rispetto al tema delle riforme, la memoria ritorna a quell’intuizione di Friedrich von Hayek che proponeva di trasformare la Camera alta (il nostro Senato) in un simposio dei migliori talenti, quel meglio attuale della mente umana, con il compito di deliberare pensando agli interessi delle generazioni future; e di riservare alla Camera (bassa) il dibattito sugli interessi di quelle presenti. Quindi affidare ai deputati, più giovani rispetto ai senatori, il governo dell’attualità e del breve periodo.
Il punto è sempre il rapporto tra minoranze e maggioranze, tra leadership e popolo o detta altrimenti tra esercizio della democrazia e responsabilità di una leadership.
Per Roger Caillois è necessario fondare una nuova gerarchia di eletti, che sia costantemente mantenuta aperta e mobile. Aperta in termini dialogici e aperta nella selezione di nuovi protagonisti in base ai sospirati ordini meritocratici. Mobile nel senso di amovibile, di sostituibile.
“La sola autorità stabile è quella che costringe con l’esempio e che si fonda sulla stima e ammirazione”11. Sono parole datate dalla retorica epica degli anni Quaranta, eppure se non vogliamo finire nelle riser- ve indiane, dobbiamo ripensarle per questa nostra disattenta post- modernità.
Come sempre è la letteratura, l’arte, che ce lo spiega più profondamente. La chimica interiore che ci sospinge in avanti regalandoci la convinzione che qualcosa abbia senso, che qualcosa meriti di essere intrapresa.
“Penso, alle volte, che niente mi aspetti al di là. Ma va bene così: [la balena bianca] mi dà da fare, mi tiene insieme”12. Essa è l’ossessione e il compito del capitano Ahab, tragica maschera shakespeariana del tema del comando tratteggiata da Melville.
Ciò che rende decente l’autorità, ciò che la rende legittima, è paradossalmente la modestia, cognizione di quello stoico sapere di non sapere, che la vota alla trasformazione di sé e all’ascolto, interminabili; è l’attenzione all’altro come se stesso. Tale è quella giustizia profonda, che in una incompresa parola chiamiamo etica.
Se poi lo diciamo all’inizio di una “vita attiva”, a una mente non asservita né provata da quella tentazione di resa o rassegnazione dell’anima civile che è la politica reale, abbiamo ancora qualche chan- ce di mutare lo stato di fatto. Ma bisogna saperlo dire a chi è continuamente tentato dal desiderio-appagamento, nel tempo in cui il dibattito ideale o politico è surclassato dalle priorità del privato.
Il grande acceleratore dell’anima sovversiva dell’Occidente erano le idee, il loro illuminare il compimento, e la forza dell’azzardo, in- transigente e messianica, in mano a quel surplus energetico che è l’età giovanile.
(Tuttavia conta anche la quantità: nel ’68 i giovani dai 15 ai 25 anni rappresentavano il contingente più numeroso – quello del baby boom. Nel 2010 sono solo l’11,6% della popolazione: 6,695 milioni contro i 60/70enni che sono 7,506 milioni, mentre sono 8,360 milioni gli ultrasettantenni)13.
Non avrebbe nessun valore acquisire tale potestà per vie brevi, senza merito, poiché saremmo noi stessi privi di merito14. “Nessun uomo è più di un altro, se non fa di più di un altro” (Miguel de Cervantes). Bisogna riconoscere invece che subito, non appena ci si incammina su questa strada, qualcosa ci premia, a cominciare dal piacere della conquista intellettuale e della fatica agonistica di su- perarci, dalla gioia di poter vedere l’accadere e il possibile da una postazione più alta, infine dal fatto di essere riconosciuti per ciò che abbiamo conquistato, letteralmente essere quella conquista, e per il fatto di poterla condividere, in un certo senso restituirla.
Su queste alture si può provare un senso di espansione dell’esistenza, sentire più vita.
Per lo storico della scienza Daniel Boorstin, il grande ostacolo alla scoperta della terra, dei continenti e degli oceani, non fu l’ignoranza, ma l’illusione della conoscenza. Viviamo nell’illusione che il presente nonostante tutto sia il punto più alto, più consapevole della nostra storia, mentre crediamo che gli errori siano riservati solo al passato.
La filosofia e la scienza politiche mostrano invece che viviamo un immenso spreco. Lo spreco è sempre di ordine morale prima che economico, giustificato da una prassi di emergenza perpetua in cui sembra fatalizzata la politica nazionale.
La stessa natura etica del sapere mostra la possibilità di limitare quell’assoluto che è la legge universale dell’interesse possessivo.
Sia Adorno che Leo Strauss – grandi didatti con posizioni teoriche divergenti – ricordano che la filosofia, essendo ricerca della verità e critica senza requiem delle opinioni correnti, è per sua natura distruttiva e sempre trasversale sia al potere sia al plagio del conforme.
La dialettica è quindi destinata a pochi interpreti, forse a nuove aristocrazie intellettuali, quindi morali, ma il suo contenuto, accessibile al pubblico, sarà sempre profondamente esemplare.
Per Strauss, in particolare, i classici sono la chiave della nostra liberazione dall’ipocrisia dell’intelligenza, che sa sempre come giustificare ogni opportunismo.
È la dialettica immortale tra maestro e allievo che costituisce la so- stanza generativa del sapere, sempre metastorico e pure attuale. Ma è solo un punto di partenza, perché tutto resta ancora da fare e da pensare. Qualcosa che non c’è, qualcosa che sarà il riflesso della nostra libertà.
Ivan Rizzi
Presidente Istituto di Alti Studi Strategici e Politici per la Leadership. Saggista
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